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La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi - Christopher Duggan - copertina
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La forza del destino. Storia d'Italia dal 1796 a oggi

Descrizione


Italia figlia benedetta della Provvidenza, o piuttosto Italia incorreggibile pecora nera del Vecchio Continente? Da quando è nata tra alti clamori sconvolgendo l'equilibrio geopolitico europeo - la più giovane delle grandi nazioni occidentali è una fucina di ambizioni e frustrazioni, slanci e sconfitte. "Fin dal principio, la nazione italiana è stata difficile da definire e ancora più difficile da costruire; e malgrado gli sforzi di poeti, scrittori, artisti, pubblicisti, rivoluzionari, soldati e politici di vario colore, la fede nell'ideale dell'Italia non ha avuto lo sviluppo auspicato da tanti patrioti. È d'altronde possibile che l'insistenza con cui il progetto di 'fare gli italiani' è stato perseguito fino alla seconda guerra mondiale abbia finito col risultare controproducente, contribuendo a erodere la credenza nei valori nazionali collettivi. Al principio del nuovo millennio, l'Italia continua ad apparire un'idea troppo malcerta e contestata per poter fornire il nucleo emotivo di una nazione, o almeno di una nazione in pace con se stessa e capace di guardare con fiducia al futuro." Christopher Duggan ricostruisce oltre due secoli di storia italiana, dalla deludente invasione napoleonica di fine Settecento ai nostri giorni.
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Dettagli

2008
20 novembre 2008
XVI-767 p., ill. , Rilegato
9788842070689

Valutazioni e recensioni

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Walter
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Forse il voto giusto sarebbe un 3,5: ho trovato la prima parte del libro, in cui si narrano le vicende risorgimentali, davvero ben fatta soprattutto perchè l'autore è riuscito a rendere bene il contesto sociale e il pensiero e l'ideologia dei patrioti italiani, nel periodo che va dall'occupazione napoleonica fino alla fine del secolo. Nella narrazione dell'Italia dal 1900 in poi però l'autore perde di tono, e a tratti diventa quasi superficiale (la prima guerra mondiale è racchiusa in meno di 20 pagine!! Così come per l'Italia repubblicana le vicende si fanno un po' confuse e con troppi tagli!). Ad ogni modo un buon libro che non diventa mai pesante anche perchè la narrazione è molto discorsiva. Certo, da non considerare come la summa della storia italiana, ma molto interessante perchè alla fine ci si rende conto che la maggior parte dei problemi che ci troviamo ad affrontare nell'Italia odierna sono in realtà problemi irrisolti che risalgono addirittura all'unità nazionale, un'unità che fin dal principio non è mai stata in grado di unire e saldare le mille diversità della nostra penisola.

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Voce della critica

Duggan è noto in Italia per una biografia di Crispi e un paio di saggi sulla storia della mafia e della Sicilia. Nell'ampliare i suoi interessi a tutta la storia d'Italia, ha assunto gli stessi criteri usati per l'età crispina, applicando una visione inevitabilmente arcaica e intimamente retriva. Per riprendere una sua citazione dello stereotipo britannico che vede nell'Italia una carnival nation, forse avrebbe dovuto dare al suo libro un altro titolo verdiano: Un ballo in maschera. Infatti, perché un libro non italiano sull'Italia sia offerto anche ai lettori italiani sarebbe opportuno che fosse costruito su un'accurata lettura delle fonti e della letteratura esistente e che offrisse un'interpretazione originale, piuttosto che adagiarsi sui luoghi comuni di certa storiografia britannica, che vede gli italiani come un popolo indolente, passivo e scettico, secondo una visione intrisa di preconcetti.
Dal punto di vista delle fonti, il libro è basato sulla letteratura anglosassone, su alcune sintesi "canoniche" come quella di Candeloro, su alcune opere edite da noti editori di Torino, Bologna e Bari. E su poco altro. L'autore ignora (o mostra di voler ignorare) l'esistenza di migliaia di volumi italiani. Ma soprattutto ignora fonti come la collezione dell'Istituto per la Storia moderna e contemporanea, quella dell'Istituto per la Storia del Risorgimento, i Documenti diplomatici italiani. Se poi si aggiunge che l'autore mostra anche di ignorare i dibattiti relativi ai nodi interpretativi principali della storia italiana, se ne desume un quadro sconsolante. Per citare solo due esempi: di Rosario Romeo egli utilizza (male e poco) la biografia di Cavour, ma ignora il dibattito suscitato (specialmente con Gerschenkron) dalle sue tesi su Risorgimento e capitalismo, tesi che ebbero un ruolo centrale nel portare il caso italiano al centro del dibattito internazionale sul rapporto fra industrializzazione, modernizzazione, democrazia e dittatura. E per la politica estera (che sempre condiziona e spesso spiega la vita italiana) la sua principale fonte è il pur mirabile volume di Chabod, scritto prima del 1950, cioè oltre sessant'anni fa.
L'Italia appare come un paese semicoloniale, dove per caso allignarono menti eccelse. Così diventa impossibile capire che l'unificazione italiana fu il risultato dell'integrazione della penisola nello sviluppo dell'economia di mercato industrializzata; della progressiva integrazione finanziaria e commerciale del Nord all'Europa occidentale; e il frutto della capacità cavouriana di trasformare il caso italiano in un tema drammatico per la politica internazionale europea.
Pur senza lasciarsi andare a un nazionalismo storiografico senza senso, non si può non restare meravigliati dal fatto che i passaggi e i personaggi dominanti della vita italiana vengano sistematicamente sviliti dinanzi a figure minori ma più colorite. Occorre qualche esempio? Sin dall'inizio del volume si apprende che la cultura italiana del Sette-Ottocento non fu forgiata dall'insegnamento di uomini come i Verri, Romagnosi, Beccaria, Cattaneo (ai quali Duggan dedica citazioni svagate o occasionali), ma da figure come quella, ingiustamente ignorata, del coreografo e ballerino Gasparo Angiolini, che "buttò giù le sue riflessioni politiche in quaderni che fece poi stampare e distribuire agli amici". Si apprende che l'idea nazionale italiana non fu il frutto della maturazione di spiriti eletti, ma della pubblicazione di Corinna, o l'Italia, scritto da Madame de Staël come romanzo intellettuale che tenta, nella figura della sua eroina, di "incapsulare l'anima della nazione italiana". Si apprende che il nazionalismo toscano era il frutto di Niccolò Puccini, patrizio toscano vissuto in quel di Pistoia, protettore delle arti e della cultura. Insomma, il metodo generale di questo libro è quello di tralasciare il contributo di molti maggiori autori del pensiero italiano per sostituirli con personaggi minori, ingiustamente "dimenticati" dalla storiografia italiana.
Nulla si potrebbe obiettare a questo "ripescaggio" nella cultura minore se non esistesse il senso delle proporzioni. I nomi citati non dicono niente a chi si occupa di storia d'Italia. Ma appare quanto meno incomprensibile la trascuratezza verso chi davvero operò come protagonista o, meglio, l'evidente squilibrio fra chi molto disse e chi, oltre a dire, operò. Se di Mazzini e dei democratici italiani si dice a sufficienza quanto si può trovare in un buon manuale scolastico, i moderati, cioè i vincitori della contesa, sono quasi messi in un angolo. A Gioberti, Durando, d'Azeglio, Balbo sono dedicate poche pagine di sintesi, e a Cavour, la cui personalità, cultura e forza politica svettano nella storia italiana, viene dedicata solo mezza pagina, quasi che lo statista piemontese non fosse per diventare il filtro della trasformazione italiana. Poco di più è dedicato alla sua azione economico-politica. Nulla si dice del lavorio che egli svolse per modernizzare il Piemonte e tutto viene ricondotto all'immagine di un pragmatico giocatore, pronto a cogliere le buone occasioni più che a pianificare.
Si potrebbe continuare lungo questa falsariga, ma qui entrano in campo gli errori di fatto, che hanno inizio proprio dalla mancata conoscenza delle fonti, ma che sarebbe troppo lungo enumerare poiché essi si trovano a decine. Agli errori si debbono però aggiungere le omissioni o le percezioni fuorvianti. Un esempio di percezione fuorviante è offerto dalle Cinque giornate di Milano, un episodio al quale Duggan dedica due righe (sic!), di fronte alle cinque pagine dedicate alla Repubblica romana del 1849. Percezione che sarebbe legittima, se non si tenesse conto del fatto che l'episodio milanese pose le basi per tutto ciò che accadde fino al 1861 e che fu lo spunto dominante del dibattito fra moderati e democratici dopo il 1849.
Ma ciò che più desta stupore è il fatto che un libro così ambizioso trascuri completamente gli sviluppi dell'economia italiana e tratti quelli della società in termini così futili. Dell'economia italiana non si dice nulla di intrinseco, nulla che affronti le fondamenta e gli sviluppi del decollo economico italiano alla fine dell'Ottocento; che spieghi la crescita e la crisi del primo dopoguerra o che spieghi seriamente il "miracolo economico" del secondo dopoguerra. Invano il lettore cercherebbe la citazione di nomi come quelli di Stringher, Beneduce, Einaudi, Baffi, Menichella, Carli. Trova (e non appaia ardito l'accostamento) aneddoti che raccontano come Vittorio Emanuele II si mettesse lucido nero da scarpe sui capelli per nascondere la canizie; o trova, come descrizione del sistema educativo e della riforma Gentile, la storia di una maestra, Italia Donati, pioniera solitaria e perseguitata dell'insegnamento elementare; oppure l'informazione che, negli anni trenta del secolo XX, "a Milocca, nella Sicilia centrale, per essere ammesse in seconda, le ragazze dovevano indossare le mutandine" (secondo la ricerca dell'antropologa americana C. G. Chapman). Invano però cercherebbe notizia di Maria Montessori.
Tutti questi esempi, che per un recensore è persino umiliante rilevare, ma che sono solo alcune citazioni, rispetto a un insieme assai più ricco di imprecisioni, sventatezze, stereotipi, portano a una conclusione più generale e metodologica. Vi sono innovazioni degne di nota nel libro di Duggan e tali da far passare sotto silenzio le omissioni o le falsità? L'interpretazione di questo autore si colloca nell'insieme di letture critiche del Risorgimento. Sono le tesi sviluppate, fra i primi, da Cattaneo, da Ferrari, da Montanelli, da Salvemini, da Gobetti, da Gramsci, da Salvatorelli, da Spellanzon, da Candeloro e da tanti altri autori italiani. Tesi già note e in gran parte condivisibili (benché negli anni più recenti esse abbiano assunto una valenza politica discutibile). Ma assumere questi criteri non significa anche dimenticare ciò che è l'Italia. Duggan offre l'immagine di un paese dimezzato. Giunto al 1860 è come se tutto il Nord, dal Tevere alle Alpi, non esistesse. L'esposizione è concentrata sul mancato sviluppo dell'Italia meridionale e sull'ottusità della politica piemontese. Torino, Milano, Venezia, Bologna, Firenze e persino Roma quasi scompaiono dalle pagine del libro, che pertanto diviene una sorta di storia della colonizzazione del Sud da parte di un regime illiberale. Che frattanto l'Italia tutta crescesse economicamente; si dotasse di infrastrutture (più o meno efficienti), sviluppasse una politica estera autonoma, che combattesse due guerre mondiali riuscendo a compiere il miracolo di trasformarsi in uno dei paesi più industrializzati del mondo, questi sono aspetti che al Duggan sfuggono completamente.
Ennio Di Nolfo

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Conosci l'autore

Christopher Duggan

1957, Londra

Christopher Duggan è stato docente di Storia italiana all’Università di Reading, dove ha diretto il Centre for the Advanced Study of Italian Society. Il popolo del Duce è stato nominato Political History Book of the Year e ha vinto il Wolfson History Prize nel 2013.Tra le opere dell’autore: Breve storia della Sicilia (con Moses I. Finley e Denis Mack Smith – Laterza, 1992), La mafia durante il fascismo (Rubbettino, 2007), Il popolo del Duce. Storia emotiva dell'Italia fascista (Laterza, 2013).

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