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Il libro di Rovatti non l'ho ancora letto, ho consultato questa pagina proprio per acquistarlo, ma conoscendo diversi spicchi del pensiero debole, del post-strutturalismo e avendo ancora frequentato testi di Rovatti, vorrei solo assicurare a chi incespica in questa pagina che la "recensione" che precede queste mie poche righe è sostanzialmente ridicola, frutto di una lettura sletterata.
In un libriccino di ottanta pagine, Pier Aldo Rovatti, inventore, insieme a Gianni Vattimo, del pensiero debole, parla della follia. “La follia, in poche parole” è appunto il titolo di questo lavoro. Ne sarebbero bastate anche meno, a mio parere, per arrivare alla sua conclusione, che consiste nel mettere in guardia il lettore dalla sofferenza della follia. È su quelle due scarse paginette finali che intendo soffermarmi, anche perché sono le uniche che mi sembra di aver capito. Tutte quelle che le precedono, infatti, mi sono risultate incomprensibili, non saprei dire se per ignoranza mia o per oscurità dell’autore, che essendo un filosofo di professione, segue nello svolgimento del tema, sono parole sue, una pista filosofica, ed abbonda in citazioni: Foucault, Derrida, Cartesio, Jabès, Husserl, Sartre, Pascal, Heidegger, Lévinas, Merleau–Ponty, Deleuze, Bateson. E ancora Freud, Lacan, Kafka, Holderlin, Nietzsche… L’occasione di questo lavoro è stata un seminario tenuto agli operatori dei servizi psichiatrici di Trieste. Per rompere il ghiaccio, l’autore ha chiesto a ciascuno dei partecipanti di dare una propria personale risposta alla domanda “Che cos’è la follia?”, e prende spunto da una di queste risposte (“non so… è la diversità… è la paura della diversità”) per dare il via alle sue argomentazioni. Sorvoliamo sul fatto che già l’enfasi posta dall’autore su questa triplice risposta è alquanto discutibile, perché essa (risposta) coglie solo di striscio la sostanza della follia, e certamente non la sua specificità, e veniamo alla conclusione. Rovatti racconta a un’amica che fa l’operatrice psichiatrica a Milano l’episodio di Trieste, ed esalta quell’ingenuo “non so”. “E la sofferenza?” chiede la sua interlocutrice. Ho provato un moto di forte simpatia e solidarietà nei confronti dell’ignota collega: era la stessa domanda che mi ha accompagnato durante tutta la lettura del testo, e che mi aspettavo trovasse una risposta. La risposta è puntualmente arrivata, ed è molto semplice, anzi addirittura geniale: no
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