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Anno edizione: 2021
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L’intento di Agamben nel raccontare il lungo periodo di reclusione domestica di Hölderlin non è stato quello di indagare storicamente, clinicamente o psicologicamente i motivi che lo portarono a evitare ogni rapporto con la società, quanto invece, basandosi su sintetici dati di cronaca e sull’analisi degli ultimi scritti, di proporre un’interpretazione etico-politica della sua incapacità di vivere in comunità. Secondo il filosofo romano “il tenore di verità di una vita non può essere definito esaurientemente in parole, ma deve in qualche modo restare nascosto”: in ogni biografia convergono vari episodi, ma non sono essi a dare il senso reale dell’esistenza di un individuo, che si costituisce e va rispettata come “figura” informulabile e mai completamente conoscibile. Gli avvenimenti sono una traccia, indicano una direzione da seguire, insieme alle vicende storiche che ad essi si intrecciano. Alla poesia e non alla riflessione o alla conoscenza, Hölderlin affidò il compito di afferrare e dire la verità dell’essere: la “vita abitante”, quella vissuta per abitudine, nei trentasei anni trascorsi nella torre di Tubinga, era lontana e indifferente allo scorrere del tempo, mentre la perfezione risiedeva nella sommità dei cieli. Per Agamben “Hölderlin non ha cercato la pazzia, ha dovuto accettarla, ma … la sua concezione della follia non aveva nulla a che fare con la nostra idea di una malattia mentale. Era, piuttosto, qualcosa che si poteva o si doveva abitare… E vivere non significa forse per gli uomini innanzitutto abitare?”. In questo semplice e innocente abitare l’esistere – anche nel fallimento sociale, nel decadimento fisico e mentale –, rimane il lascito etico e politico del poeta rinchiuso nella torre: nel suo “abitare poeticamente la terra” c’è meno follia di quella in cui l’intera umanità sta colpevolmente precipitando oggi.
"Quanto lontano va la vita abitante degli uomini?" cantava il poeta. Omaggio alle sue parole, ma converrà partire dalla fine del libro, il punto in cui Agamben tira i conti con un intero anno sofferto a studiarlo e giunge ad esaltare la follia di Holderlin come una grazia e un dono rispetto a certa follia contemporanea infinitamente più vasta, atroce, penosa. Era pazzo il poeta? Schelling, nel 1803 scrive: "Ha assunto le maniere esteriori di un pazzo e quindi di non lo è". Ecco lo snodo su cui si gioca la riflessione, quello che Agamben definisce "l'abito" che pian piano assume l'intera vita di Holderlin, la piega cioè, giusto sottolinearlo, "dell'abitare" una condizione, sia pure quella, persa o lucida che fosse, di una mente absens. Quello che viene chiamato un verbo frequentativo, ossia l'abitualità dell'ormai, del proprio genio, di un dentro. Per usare un parolone certo non consueto, l'Aorgico, inteso come una natura illimitata e incomprensibile. E dentro l'unicità di questa matassa procedere in un'indagine che forse ha già in sè la soluzione, ma che non stanca e non disarma sotto le coltri di versi spesso ripetuti, rivisti, rimodellati. Dilucida intervalla, dove cadono come fuscelli senza più precisa identità colpe e innocenze insieme, volontà e prospettive, atti e contemplazioni. Dunque racconto e cronaca dentro queste pagine, il corso degli "insani" decenni attraversato fra pasti e vestizioni, fra notti insonni e grandi passeggiate, mentre ogni caduca ostinazione a mettere ordine sulla giostra del senno via va si adagia nella smisurata stima, nell'amore verso il poeta. Perchè se il discorso si spezza, si interrompe, si infrange lungo i gradini del canto, è inutile a quei livelli offrire stampelle di ragione, ma dirsi una volta per tutte che siamo "nel linguaggio come tale". Movimento e stallo, azione e cedimento, gesto e resa, coppie inscindibili nelle tempie dell'aedo. Inseparabili. Gran libro, una carezza erudita su un inno alla notte.
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