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Attraverso Lavater e il suo genio per la «fisiognomica», “sein physiognomisches Genie” – come disse Goethe riassumendo l’opinione comune del suo tempo –, questa disciplina, sin allora piuttosto oscura, diventò la scienza più in voga e l’occupazione preferita dell’epoca successiva al 1770, che, oscillando tra razionalismo e sentimento, tra il rigore dei Lumi e la sensibilità alle volte accorata alle volte gioiosa dell’Empfindsamkeit, cercò di esprimere un’immagine del mondo nuova, orientata alla vita terrena, al cui centro si trova il concetto di «individuo». Ogni volto, ogni silhouette venne osservata con grande attenzione, frontalmente, di profilo, da dietro; vi si leggeva il carattere, fino all’aura più sottile e imprecisabile della persona. ‘Physiognomik’, in italiano ha due varianti grafiche: ‘fisiognomia’ (dal greco ϕυσιογνωμία) e ‘fisiognomica’ per indicare la disciplina parascientifica che studia l’espressione del volto, entrambe con il medesimo significato; dalla stessa radice greca però deriva anche ‘fisionomia’ (e, in alcuni casi, fisiognomia e fisionomia sono stati in passato sinonimi), che in tedesco è ‘Physiognomie’. Così quello che in italiano è meno visibile, eccetto per la mancanza di una ‘g’, in tedesco lo è nettamente di più, perché la fisionomia oggi indica solo l‘espressione dei volti e non la disciplina che studia – à la Lombroso – come è conformato un volto in rapporto alla struttura psicologica (Innenlage) della persona in questione. Se non che, nel Settecento di Lavater quello che nel tedesco moderno è chiamato ‘Physiognomik’ era indicato in parte, nel suo aspetto più generale, con ‘Physiognomie’ (così nell’«Universal-Lexicon» del 1741 di Zedler, così nel trattato di Peuschel “Abhandlung der Physiognomie, Metoskopie und Chiromantie”, 1769, tanto apprezzato da Goethe stesso: “tutto in natura ha la sua Physiognomie”), intendendo però non solo le espressioni del volto ma il compendio di queste, e cioè l’espressività di un volto nel suo insieme.
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