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Anno edizione: 1969
Anno edizione: 2015
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La Filosofia dell’espressione di Giorgio Colli è un saggio teoretico che si azzarda a ripensare ex novo alcuni temi essenziali della metafisica, situandosi in posizione di evidente rottura e incompatibilità con le correnti dominanti della filosofia contemporanea. Qui la prospettiva privilegiata è quella della conoscenza, ma non certo in rapporto alle preoccupazioni epistemologiche dell’età moderna: piuttosto siamo di fronte a un tentativo di risalire all’indietro il corso involutivo della storia, con gesto di sovrana inattualità, per tornare ai termini del primo pensiero greco.
La parola-guida espressione viene qui intesa in senso metafisico, come ‘la sostanza del mondo’, che rimanda ad altro, senza che questo altro possa essere nominato. Nel suo aspetto perennemente duplice di giuoco e di violenza il mondo si articola davanti a noi, sullo schermo illusionistico della rappresentazione, in serie espressive variamente complesse, che si allontanano sempre più dall’immediato e sempre più cercano di recuperarlo. A seguire l’intrico di questi rapporti in cui la ragione costruisce il mondo, trasformandosi, non verrà certo di pensare alla ragione strumentalizzata del pensiero moderno, ma piuttosto al senso greco del logos, quale traspare nelle enigmatiche formule dei Presocratici o ancora nella immensa summa aristotelica, nel cui alveo confluisce l’intero pensiero greco. E di fatto è soprattutto in riferimento ad Aristotele, in continuo dialogo e contrasto con le sue enunciazioni, che Giorgio Colli ha concepito la parte centrale di quest’opera, dove si dipana una elaboratissima teoria delle categorie e della deduzione.
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Opera veramente notevole, per la quale l'attributo di astrusa non convince, a dispetto di quanto dicono i commenti che precedono il presente. Infatti non è un'opera complessa dal punto di vista tecnico, per così dire; non è che sia troppo specialistica. Il punto è che l'opera richiede una certa affinità interiore con l'autore, una certa iniziazione pregressa. Bisogna vedere intellegibilmente come vedeva il Colli. Lo stile, chirurgico e molto denso, è pensato al fine di guidare il lettore: è una scrittura d'acciaio quella del Colli, che non si concede mai vuoti, momenti di depressione espressiva, disomogeneità poiché il lettore che poggiasse su un falso sostegno potrebbe sfiduciarsi, perdere il bandolo della matassa. E' vero che, per altro verso, questo stile ha una controindicazione: non è affatto semplice penetrarne la compattezza. Il libro è una gabbia metallica dalla quale l'espressione non deve fuggire!, fu così che il Colli lo volle. L'espressione deve rimbalzare da un capo all'altro del libro. Ecco perché una o più riletture sono necessarie. Ai fini della coerenza, della compattezza interne ogni concetto è utilizzato sempre con lo stesso significato, e in alcuni casi il significato acconcio di un certo termine è chiarito solo successivamente.
Opera affascinante anche se di difficile lettura (soprattutto la parte centrale dedicata alla ridefinizione delle categorie logiche del pensiero). Il lavoro, che rappresenta il massimo contribuito teoretico di Colli, presenta una impostazione di fondo di stampo shopenhaueriano: Colli ci mostra come il mondo, e noi con esso, si articoli nell'illusione rappresentativa allontanandosi sempre più dall'Immediato, da quell'origine metafisica dal quale è scaturito.
Questo testo rappresenta il vertice della riflessione filosofica di Colli. La preparazione richiesta per una lettura adeguata è mostruosa - vista anche la volontaria assenza di note - ma le intenzioni sono chiare, seppure una comprensione nei particolari più tecnici richiede uno studio approfondito, realizzabile soprattutto se affiancato alla lettura de "La ragione Errabonda" dello stesso autore. Il testo mette in risalto la differenza abissale che intercorre tra l'antica "sapienza" e la moderna "filosofia", attuando particolari linee ermeneutiche: la scelta di tradurre logos con espressione su tutte (ma Colli utilizza anche il significato "normale" del termine greco). A riguardo, ne esce fuori una lettura convincente: non è la ragione ad aver portato la luce nel mondo rispetto ai tempi oscuri del mito, ma è la ragione stessa ad aver smarrito le proprie origini; per usare la metafora dell'albero, le radici dell'occidente (quello che non vediamo, l'indicibile)non raggiungono più la fonte del loro sostentamento, ed i rami e le foglie (quello che vediamo, il mondo che ci circonda e noi stessi) si stanno seccando. La critica della logica moderna ed il suo superamento sono il fine del testo di Colli. Questo lavoro non potrà che sfociare nello studio del linguaggio del mito, che lo stesso Colli proverà ad avvicinare maggiormente nella sua ultima, incompiuta, opera : La Sapienza Greca.
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