È ben vero, come scrive l'autrice nella prefazione, che il filo della teologia femminista "negli ultimi anni è andato sfilacciandosi". Ma potrebbe non essere un male. Se, ad esempio, fosse ugualmente vero che molto, o almeno abbastanza, di quel che la teologia femminista doveva consegnare alla riflessione su Dio, e sull'essere umano, davvero oggi ci appartiene. Oppure, se la riflessione della teologia femminista sul rapporto fra cristianesimo e ordine sociosimbolico e (quindi) fra cristianesimo e gerarchia sociale dei generi ormai fosse l'orizzonte entro cui collocare un pensiero, teologico e no, sufficientemente attento, sorvegliato, capace di accompagnare un sentire comune, altrettanto attento, sull'equità di genere. Nelle chiese e nella società. Invece no. E non c'è bisogno di dimostrare quanto poco sia passato di quel pensiero che svelava i limiti di una teologia naturalmente al maschile: nella voce di chi la praticava, nelle immagini, nelle metafore, nell'immaginario comune. La teologa e pastora battista Elizabeth E. Green, in Italia da oltre trent'anni, ci regala in questa raccolta di saggi, il cui titolo, Il filo tradito, è una tesi e una protesta insieme, un percorso dentro la storia e le persone della teologia femminista degli ultimi vent'anni. Un racconto pieno di donne il cui sguardo largo sul mondo ha permesso di incrociare con assoluta spontaneità la riflessione teologica con i grandi temi dell'eros, del corpo, dell'ambiente, dei diritti civili delle minoranze. La denuncia di un pensiero teologico che, a volte colpevole, a volte non del tutto consapevole, avallava una gerarchia esplicita o nascosta delle relazioni, era fatta con la passione che viene dal sentire il cambiamento vicino, possibile. La lettura che la teologia femminista ha offerto del Cantico dei cantici, ad esempio, ha permesso di liberare il testo dall'interpretazione simbolica che ne estenuava la forza e lo ha restituito alla potenza di un racconto d'amore per nulla struggente, non un amore che soggioga l'una all'altro, bensì il continuo muoversi degli amanti l'una verso l'altro. E se la presenza di Dio non è esplicita, così come quella dei figli, non si deve cercarla in minute allegorie, ma si può pensare che quel "ritirarsi" di Dio nella creazione, di cui parlano differenti tradizioni teologiche, restituisca l'uomo e la donna alla loro libertà di esistere anche come corpo. E la libertà stessa di darsi gioiosamente senza altro scopo che l'amore diventa così l'immagine di Dio. E nel saggio sulla donna cananea, doppiamente impura in virtù del genere e dell'appartenenza etnica, che incontra Gesù e osa chiedere anche per lei la salvezza, e così sbriciola la durezza non del tutto comprensibile di Gesù, la teologia canta ancora la libertà, la libertà di una salvezza meravigliosamente inclusiva, capace di offrire abbondanza per tutti. Più legati al tempo in cui sono stati scritti, meno capaci di raccontarci ora la Parola sono gli scritti in cui Elizabeth Green ripercorre la riflessione teologica su Dio al femminile, perché la denuncia dello stereotipo di genere maschile non sempre, nelle teologhe che l'hanno praticata, ha saputo evitare lo stereotipo rovesciato. E anche la ricerca di un linguaggio nuovo ha a volte portato a costruzioni così artefatte da perdere la capacità di dire. La teologia femminista ha avuto forse un'efficacia inferiore alla passione e alla misura con cui è stata praticata e ha perso voce oggi. Ha avuto però un ruolo necessario di denuncia, una specie di avvertimento profetico: attenzione, ci stiamo perdendo, da cristiani e da esseri umani, se si continua così. Non c'è teologo onesto che non lo sappia oggi. E questo non è poco come guadagno. Ma ora può essere importante che semplicemente siano garantite le molte voci libere di uomini e donne che leggono e interpretano la Bibbia, il resto vien da sé. Non c'è bisogno di una teologia femminista se le letture delle donne si mescolano a quelle dei teologi maschi e insieme cercano la verità, non di genere, che si lascia raccontare solo da tante voci che insieme stanno in ascolto della Parola. Mariapia Veladiano
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