Jean-Luc Godard è stato un regista francese. Anticonformista e da sempre dissacratore delle convenzioni estetiche e delle forme codificate del cinema moderno, possedeva la tempra dello sperimentatore e la «forma mentis» del mestatore semantico di gran razza. Fin dai suoi primi approcci con la macchina da presa, agisce con e sulle immagini, anticipando (almeno fino agli anni ’80) tendenze e stili, cioè, in una parola, quasi tutto quello che gli altri sfrutteranno dopo. È stato così per il linguaggio del film come per l’immagine elettronica, che ha sperimentato in anticipo di un paio di decenni rispetto all’idea stessa di cinema digitale. Di origini medio-borghesi (figlio di un medico di religione protestante e di una erede di banchieri svizzeri), frequenta assiduamente la Cinémathèque mentre studia al liceo Buffon di Parigi, e in seguito alla Sorbona. Comincia a occuparsi di critica cinematografica su «La gazette du Cinéma» e, a partire dal 1952, sui «Cahiers du Cinéma» (usando lo pseudonimo Hans Lucas). Per girare il suo primo cortometraggio, Opération béton (Operazione cemento, 1954), sulla costruzione della diga Grande-Dixence, in Svizzera, non esita a farsi assumere come operaio. Riprende poi la sua collaborazione con i «Cahiers» e contemporaneamente affronta più decisamente la regia realizzando una serie di cortometraggi, quali Une femme coquette (1955), Tous les garçons s’appellent Patrick (1957), Charlotte et son Jules (1958), Une histoire d’eau (iniziato da F. Truffaut, 1958). Nell’estate del 1959 gira il suo primo lungometraggio, Fino all’ultimo respiro, che viene rifiutato dal Festival di Cannes del 1960 (ma che in seguito vince un Orso d’argento a Berlino e il Premio Jean Vigo in Francia). È una deflagrazione, una sorta di punto di non ritorno che si riverbera sul cinema a venire. Il soggetto, di F. Truffaut, nelle sue mani diventa il banco di prova delle rotture sintattiche più ardite. Vanno in frantumi inveterate convenzioni formali. Prima i movimenti di macchina erano impercettibili, quasi nascosti alla vista e la macchina da presa non doveva rivelare la sua presenza (i rari «trasgressori», quali O. Welles o M. Ophüls, erano considerati eccentrici provocatori), ora invece lo spettatore si trova – non senza una punta di sadismo – catapultato dentro una matassa di immagini, parole, suoni, rumori, in cui sembra arduo rintracciare un qualche rimando alle convenzioni narrative consolidate, a dispetto dell’esile trama – la vicenda di un giovane (J.-P. Belmondo) che vive ai margini della legalità e che viene ucciso dalla polizia dopo essere stato denunciato dalla sua amante (J. Seberg). Irrompono sullo schermo materiali a quel tempo filmicamente impensabili: politica e poesia, letteratura e scienza, arte e cinema. G. è il primo a usare la citazione, esplicita o nascosta, come progetto teorico e come pratica di sovvertimento dei codici. Fino all’ultimo respiro segna comunque l’inizio di un modo di concepire il film come «saggio», come esplorazione «politica» di possibilità formali della rappresentazione. Gira il suo secondo lungometraggio nel 1960: Le petit soldat (uscito però nel 1963), un film sulla guerra d’Algeria, che scava nella crisi morale e civile della Francia mantenendo un’ambivalenza del punto di vista che scatena un putiferio di polemiche e gli vale una censura politica. Si tratta di un’ambivalenza che rispecchia le incertezze stesse dell’autore, ancora alla ricerca di una piena autonomia. Il film successivo, La donna è donna (1961), è una sorta di rivisitazione scanzonata del musical americano, interpretato da A. Karina, attrice danese, allora moglie del regista. Subito dopo è la volta di La paresse, episodio del film antologico I sette peccati capitali (1961). Due opere leggere all’apparenza, in realtà dense di pungenti notazioni di costume. Con Questa è la mia vita (1962), che vince il premio speciale della giuria e quello della critica alla Mostra di Venezia, acquista ormai pienamente una coscienza estetica e una consapevolezza teorico-pratica della specificità anticonvenzionale del proprio fare cinema. Il film costruisce il profilo di una giovane prostituta alle prime armi attraverso una serie di «quadri» (come nel cinema muto) che fanno a pezzi ogni forma di fascinazione/identificazione, squadernando, anzi, uno spaccato sociologico che presenta già i connotati di una sia pur grezza politicizzazione. Dopo aver girato un’inquietante rappresentazione della guerra con Les carabiniers (1963) e un paio di episodi di altrettanti film collettanei, sempre nel 1963 realizza Il disprezzo (con B. Bardot, J. Palance, M. Piccoli), che non ha successo a causa della brutale «scorciatura» imposta dal produttore e della manipolazione di montaggio, colonna sonora e colore; ma un tale scempio non riesce a cancellare il profondo senso di angoscia esistenziale che circola in tutto il film. L’omonimo romanzo di A. Moravia (che Godard non amava) da cui è tratto il film offre lo spunto per uno sguardo sulla crisi e sui contrasti del vivere attuale, attraverso un excursus di linguaggio e di senso, a metà strada tra cinema e «realtà», che segna una tappa cruciale nella sua ricerca. Seguono Bande à part (1964) e subito dopo Una donna sposata (1964), secco e denso ragguaglio sull’aridità esistenziale di una giovane signora borghese, divisa tra marito, amante e varie attività ludiche, e costellato di monologhi spiazzanti e sottile ironia. L’anno successivo, dopo Agente Lemmy Caution, missione Alphaville (1965), un’opera sconfinante nel genere spionistico-fantascientifico (che risulta, però, una sorta di radiografia del potere dispotico), realizza uno dei suoi film più brillanti, Il bandito delle ore undici (1965), con J.-P. Belmondo affiancato da A. Karina, in cui mette in gioco un balletto stravagante, intriso di invenzioni formali, di riflessioni sul linguaggio e sul senso, di cromatismi sfolgoranti. Nella sequenza finale, Belmondo si prepara al suicidio legandosi candelotti di dinamite intorno alla testa, mentre una voce fuori campo recita versi di A. Rimbaud. Si apre, di qui in avanti, una fase sempre più marcata da una netta connotazione politica. Già con Il maschio e la femmina (1966) la vicenda di un timido giovanotto innamorato (J.-P. Léaud) è una sorta di pretesto per un’indagine intorno al mondo giovanile e ai suoi modelli comportamentali, dai toni arguti e penetranti. Dopo la parentesi di Una storia americana (1966), in Due o tre cose che so di lei (1967) la sua ormai consolidata metodologia «saggistica» rivolge uno sguardo esplorativo sulla quotidianità di una donna, sposata e con figli, che si prostituisce per arrotondare lo scarso stipendio del marito. Un affondo che è una sorta di cartografia di un’intera città: infatti, in controluce, è Parigi la lei cui allude il titolo del film, rischiarata in modo più netto da una certa influenza del pensiero di J.-P. Sartre su G. Con La cinese (1967) il suo punto di vista si fa direttamente politico, antagonista, contiguo alla sinistra più radicale, e al tempo stesso sempre più decentrato, deconvenzionalizzato sul piano del linguaggio, dello stile e della materia significante. Un attore sceglie di dedicarsi esclusivamente al teatro di strada; una giovane universitaria organizza un attentato contro l’ambasciatore sovietico; un gruppo di giovani marxisti-leninisti cerca di agire praticando le teorie di Mao: il film gioca con i materiali della cultura di massa svelandone i meccanismi con la messa in scena del «cinema nel cinema» (i ciak conservati nel montato, l’operatore Coutard ripreso alla macchina ecc.) e con un procedimento di «straniamento» che evoca in qualche modo la teoria eisensteiniana del montaggio. G. sembra porsi anticipatamente nel clima e nella corrente impetuosa che deflagrerà nel maggio parigino del ’68 producendo un forte impatto anche su molti registi (come dimostra la contestazione al Festival di Cannes di quell’anno). Sempre nel 1967 dirige un’altra delle sue opere più caustiche, Week-end - Un uomo e una donna dal sabato alla domenica: un classico fine settimana della media borghesia, con le sue aberranti e quasi oscene ritualità, diviene un autentico crogiuolo di situazioni politico-esistenziali messe in scena con un tocco di surrealismo e un continuo escamotage di paradossi visivi e sonori, risultando in fondo una sorta di résumé del «godardismo», con l’aggiunta di una smisurata ferocia antiborghese. Il film apre sostanzialmente la stagione della militanza godardiana nella sinistra extraparlamentare (una militanza «sui generis», s’intende), che comunque non implica affatto un abbandono della sperimentazione linguistica e formale. Seguono British Sound (1968), La gaia scienza (1968), Un film comme les autres (1968, in 16mm), One plus One (1968), Cine-tracts (1968, sorta di film-volantino), One American Movie (1969), Vento dell’est (1969). Successivamente gira film anche più radicali, concepiti spesso con il gruppo «Dziga Vertov», sorta di collettivo politico dell’immagine: One PM (1969, in collaborazione con A. Pennebaker), Pravda (1969), Lotte in Italia (1970), Vladimir et Rosa (1970), Jusqu’à la victoire (1970, girato in Palestina). Emblematico della fase militante è Crepa padrone, tutto va bene (1972), con J. Fonda e Y. Montand, scritto e firmato insieme con J.-P. Gorin a significare il risultato di un’elaborazione collettiva. Due giornalisti, legati non solo dalla professione ma anche da un ménage di coppia, incontrano gli operai di una fabbrica occupata, ma vengono contestati aspramente al pari dei padroni, tanto che il loro rapporto sentimentale finisce per vacillare. Il film, con la sua allusione ai rapporti sociali che si riflettono anche nella vita privata, è quasi un apologo della durezza del conflitto di classe. Dopo Letter to Jane, sempre del 1972, una cine-lettera indirizzata a J. Fonda, sciolto il gruppo «Dziga Vertov», la fase militante dell’autore si smorza e G. non gira nulla per tre anni: è un periodo di riflessione, in cui matura un approccio ai nuovi mezzi audiovisivi elettronici, come al solito anticipatorio. Si trasferisce a Grenoble con la nuova compagna, A.M. Miéville, con la quale firma alcune opere. Rileva un’azienda informatica, la «Sonimage», per farne una struttura di produzione, e mentre collabora con J.-P. Beauviala alla sperimentazione di una nuova cinepresa in 16mm (la celebre, leggerissima Aaton), procede nella sperimentazione del supporto elettronico. È appunto con la Aaton che nel 1975 ricomincia a filmare, realizzando, a quattro mani con Miéville, il mediometraggio Ici et ailleurs (Qui e altrove), tornando subito, però, al 35mm con Numéro deux (Numero due, 1975), e Comment ça va (Come va, 1976). Se i primi due in qualche modo agganciano le modalità e la materia dei film più recenti, il terzo si pone in guisa decisamente più problematica e segna un’apertura, ancora indistinta, verso una nuova costellazione di forme, immagini, suoni e parole che si rivelerà presto fluviale. Comincia a usare con decisione la videocamera con Six fois deux - Sur et sous la communication (Sei per due – Sopra e sotto la comunicazione, 1976), «contaminandola» poi con la pellicola in France tour/detour deux enfants (Francia giro/deviazione due bambini, 1977-78), serie in dodici puntate. Queste ultime opere incontrano raramente la via del pubblico, ma due anni più tardi, nel 1980, Si salvi chi può - La vita scompiglia ancora una volta tutte le carte. È come se G. ritrovasse d’un colpo l’ironia, la durezza, il gusto dissacratorio, l’eleganza formale, uniti a una rinnovata destrutturazione del testo. Il film, una gelida e amara ricognizione delle vuote mitologie solipsistiche che percorrono il tessuto sociale alla soglia degli anni ’80, esibisce residue tracce di codici narrativi in qualche modo intellegibili, palesemente ridotti a pretesto per nuovi esercizi semantici. Si incomincia a intravedere una traiettoria che entra in rotta di collisione, non con il linguaggio del cinema – cosa che nell’opera godardiana avviene da sempre – ma con la forma-cinema stessa. Nel lungometraggio successivo, Passion (1982), la struttura narrativa ha già acquistato tutto il sapore enigmatico di una rottura, sia sul piano dell’esplorazione iconica, sia su quello delle strategie narrative, esibendo una serie di quesiti penetranti sulla figurazione in generale: il confronto fra la grande pittura e il cinema, tra la luce naturale e la luce artificiale, la fatica della comunicazione, il rapporto tra suono, rumori ecc. Con Prénom Carmen (1984) vince un contestato Leone d’oro alla Mostra di Venezia nel 1983, mettendo in scena una Carmen che non ha nulla a che vedere con quella della tradizione – salvo l’aspetto di irresistibile seduttrice – ma appare piuttosto infarcita di irriverenze e distrofie, sottolineate dalla dissonanza dei «Quartetti» di Beethoven eseguiti dal vivo. Quasi una dichiarazione di rifiuto delle regole del gioco, il seguente Je vous salue Marie (1985), discusso film sulla Madonna, scatena un diluvio di polemiche, soprattutto in certi ambienti iper-cattolici, punzecchiati nella loro «pruderie» integralista. Di lì in avanti, la sua attività, sempre sul crinale di una ricerca intessuta di forme, linguaggi, immagini, concetti, spesso indiscernibili, si fa quasi frenetica. Gira, infatti, mediamente un lungometragio all’anno, inframmezzato da un corto, un mediometraggio, un film-saggio, un documento visivo sempre sorprendente, oltre a una straordinaria, personalissima galoppata nella storia del cinema con Histoire(s) du cinéma (Storia/e del cinema, libri e film relativi). Realizza, tra gli altri, Detective (1985), Cura la tua destra (1987), Re Lear (1987). In Nouvelle Vague (1990), appare chiaro che il suo contenzioso con il cinema forse non si chiuderà mai. È una sorta di conflitto in cui i due contendenti – G. e il «cinema» – non risparmiano i colpi: lui mette a punto armi destabilizzanti, sopraffine e sofisticate, ma rimane perennemente impantanato in un subdolo sistema di relazione-inclusione in cui più il diabolico autore procede nella sua opera di destrutturazione, più la «settima arte» gli si offre come in una sorta di rito sacrificale. In Nouvelle Vague c’è un’incerta storia d’amore tra una ricca signora svizzera e un uomo capitato per caso nella sua vita: solo un accenno di trama che però si disperde subito nelle innumerevoli articolazioni di una struttura che rifiuta le comuni abitudini percettive, avvolgendosi in una metafora beffarda. Tra i lavori successivi: Peggio per me (1993), JLG/JLG - Autoportrait de décembre (JLG/JLG - Autoritratto di dicembre, 1995), Histoire(s) du cinéma (sei episodi, 1998), Éloge de l’amour (2001), Ten Minutes Older - The Cello (Più vecchio di 10 minuti - Il violoncello, 2002), Notre musique (La nostra musica, 2004).
La sua autobiografia è stata pubblicata in Italia da minimum fax con il titolo Due o tre cose che so di me. Scritti e conversazioni sul cinema. In traduzione sono stati editi negli anni altri suoi saggi, in particolare Cinque film (Einaudi 1972), Il cinema è il cinema (Garzanti 1981).
Nei cataloghi editoriali si trovano anche numerosi saggi sui suoi lavori. Ricordiamo tra i più recenti: Jean-Luc Godard di Roberto Chiesi (Gremese 2003), Jean-Luc Godard. Fino all'ultimo respiro di Jacopo Chessa (Lindau 2007), Passion Godard. Il cinema (non) è il cinema (Il Castoro 2011), Jean-Luc Godard, a cura di Silvia Alovisio (Marsilio 2018).
Fonte immagine: copertina del volume A Companion to Jean-Luc Godard di Tom Conley e T. Jefferson Kline - John Wiley & Sons Inc, 2014