Ci sono dischi empatici, dischi che diventano amici, e poi ci sono gli altri… e tra loro ci sono sicuramente delle piccole differenze, un certo “nonsochè” che rende un disco apparentemente senza senso, un disco vibrante e vitale. Nonostante, o forse grazie alla sua cinica disperazione, la musica di MATT ELLIOTT non prende mai connotati morali, ma al contrario, crea un dialogo compassionevole con l’ascoltatore, che si immerge totalmente nelle melodie. Tutti i dischi di Matt Elliott sembrano avere un legame empatico gli uni con gli altri. “Farewell to All We Know” è un istante classico basato sul magistrale piano e i superbi arrangiamenti di David Chalmin, il sensibile violoncello di Gaspar Claus e l’insinuante basso di Jeff Hallam (che ha suonato con Dominique A e John Parish). C’è una chiara forma di alchimia, eppure emergono le solite atmosfere e scenari à la Matt Elliott, la stessa folk music dell’Europa dell’Est, lunghi brani che si prendono tutto il tempo del mondo. Tutto è come sempre ma è anche trasfigurato. Creando una musica purificante e quasi nuda, il lavoro di Matt Elliott è diventato ancora più delicato, senza perdere un briciolo della sua sferzante energia.)
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