Paul Ginsborg ha scritto un libro che si legge con grande facilità, perché racconta storie avvincenti di famiglie europee nel Novecento, ripercorre le biografie di personalità a dir poco intense come Aleksandra Kollontaj e Halide Edib, Filippo Tommaso Marinetti e Joseph Goebbels, analizza il vento instabile delle trasformazioni della vita quotidiana e la palude dura a morire del tradizionalismo culturale, parla di appassionate illusioni e amarissime sconfitte, di donne che rompono i tabú più innominabili e di donne che si suicidano contro il proprio marito. Molte donne, comunque. Lo storico inglese, che alla sua compagna dedica la propria fatica, va annoverato tra gli uomini che amano le donne. Che avvertono come prioritario il nodo epocale della loro emancipazione. Famiglia Novecento, recita il volume. Ma il titolo einaudiano va letto con giudizio. Insieme con il sottotitolo. Perchè in realtà Ginsborg non illustra tout court la famiglia del Novecento, ma seleziona cinque casi nazionali della prima metà del secolo, la Russia, la Turchia, l'Italia, la Spagna e la Germania. E, quel che più conta, segue questi paesi nelle particolarissime circostanze della rivoluzione, della guerra civile e della dittatura. Le famiglie di Ginsborg vivono la tumultuosa stagione leninista e poi la ferocia dello stalinismo, la modernizzazione draconiana di Mustafa Kemal Atatürk, l'ambiguo fascismo mussoliniano, il cruento confronto tra franchisti e repubblicani, la nazificazione della Germania. Sono famiglie alle quali lo spirito e le pratiche del tempo offrono o più spesso impongono condizioni del tutto specifiche. Il tema del libro è dunque, in ultima analisi, il rapporto tra lo stato e la società (la sfera pubblica e la sfera privata) all'interno di "drammatiche transizioni". Il che significa che Ginsborg parla di famiglie, ma finisce per costruire, in filigrana, una propria lettura di categorie estremamente impegnative come dittatura e totalitarismo. Le modalità con le quali alcuni dei più illiberali regimi dell'Europa di primo Novecento affrontano il cruciale nodo delle politiche familiari (e del diritto di famiglia) segnalano cioè, o dovrebbero segnalare, la natura di quei regimi, svelandone le speciali dinamiche tra la politica e gli individui, contribuendo a definirne i caratteri e pervenendo perciò a un giudizio storico che va ben oltre il topos della famiglia. Non a caso sono molte le pagine del volume che, quasi dimenticando il titolo, ripercorrono piuttosto la storia politica di quei paesi tormentati, il ripiegamento della rivoluzione bolscevica negli anni venti e le grandi carestie, lo sterminio delle minoranze nell'Anatolia dei Giovani Turchi, la vicenda dei rapporti tra stato e chiesa nell'Italia fascista, le crudeltà nel nome di Dio della Spagna degli anni trenta, il lutto per la sconfitta del 1918 e la terribile revanche della Germania weimariana e hitleriana. Quella di Ginsborg è un'opera ponderosa, ricca di letture, affascinante, intrisa di passione liberale e antiautoritaria, capace di comunicare sentimenti, simpatie, idiosincrasie. Ma è anche un'opera molto ambiziosa. Verrebbe da dire: troppo ambiziosa. Per certi versi, una storia delle dittature europee. L'accostamento storico di cinque esperienze molto diverse, come sono quelle di Russia, Turchia, Italia, Spagna e Germania, e l'incrocio fra quei regimi coercitivi e il nodo della famiglia finiscono infatti per avere due conseguenze. Per un verso, circoscrivono il campo a una casistica che, per quanto sia diffusa nel primo dopoguerra, taglia comunque fuori un'altra metà di Europa e l'intero Occidente atlantico, rischiando di accreditare nel lettore l'idea (che naturalmente non è di Ginsborg) che questo sia un affresco significativo della condizione familiare nel Novecento. Il controcanto di casi e paesi meno politicamente drammatici sarebbe forse tornato utile. Per altro verso, le scelte dell'autore determinano un singolare effetto ermeneutico di uniformità. Dittature e regimi autoritari, dai più morbidi ai più implacabili, appaiono tesi a costruire politiche in qualche misura parallele, se non sostanzialmente eguali. Fascismi, comunismi e nazionalismi si muovono con il comune obiettivo di rendere le famiglie "funzionali e obbedienti" ai regimi al potere, sostenendone le pratiche riproduttive, alfabetizzandole, facendone le destinatarie principali delle più o meno corpose politiche di welfare. Portandole perfino a fare i primi bagni di mare, come nella ruspante Italia mussoliniana. "I dittatori, al di là delle denominazioni e delle ideologie, avevano obiettivi simili", rileva Ginsborg, e non erano "nemici delle famiglie", né "diedero prova di un potere così omnicomprensivo e distruttivo nei confronti della famiglia", come farebbe pensare la categoria stessa di totalitarismo. Un sillogismo, questo, non del tutto chiaro, né del tutto appropriato. Ci si chiede per quale ragione i regimi tragicamente illiberali e pervasivi dell'Europa primo novecentesca avrebbero dovuto fare la guerra alla sfera privata. Il totalitarismo non ignora di certo il tema della legittimazione e del consenso e non usa a caso gli strumenti materiali e ideologici dell'indottrinamento e della violenza. Anche sul versante dei valori comuni, d'altronde, l'esito della stagione dittatoriale sembra essere, nelle pagine di Ginsborg, piuttosto uniforme, a dispetto della forte diversità dei contesti e dell'abissale differenza dei retaggi storici. Malgrado tutto, quel che prevale e che non mostra incrinature consistenti nell'Ankara kemalista o nella Berlino di Hitler, nella Spagna di Franco e pure nella Spagna anarcosindacalista, nell'Unione Sovietica di Lenin o di Stalin, è una cultura rigidamente patriarcale, la quale si fonda sulla distanza dei generi, indica gerarchie familiari invalicabili, attribuisce al tradizionale rapporto genitori-figli un essenziale ruolo formativo. La stagione del totalitarismo sembra non toccare, nella sostanza delle pratiche individuali e sociali, gli istituti e la cultura delle famiglie. Con l'eccezione della Turchia urbana, semmai (ma in Turchia, prima di Atatürk, vigevano l'harem e il matrimonio in età infantile). Non solo non c'è regime che voglia distruggere la famiglia, conclude Ginsborg, ma neppure c'è una "società civile" capace di proporre modelli familiari alternativi, eccezion fatta per qualche sogno rivoluzionario di "libero amore" e di "comune" sbocciato sul terreno assai fragile della prima Unione Sovietica. Anche i rivoluzionari più coriacei non hanno alcuna intenzione di rinunciare alla sottomissione di mogli, figlie e figli. Ma si tratta di una conclusione deludente, la quale rischia di vanificare l'approccio comparativo che l'autore fin dalle prime pagine dichiara di voler adottare e, per altro verso, amplifica eccessivamente la dimensione della società civile. A essa addebitando ciò che proprio quei regimi e contesti sembrerebbero poter spiegare. Il che tanto più stupisce perché, analizzando in oltre seicento pagine una folla di vicende individuali e familiari, Ginsborg dà prova della sua sensibilità per i fenomeni culturali e sociali della storia, confermando un profilo intellettuale che gli specialisti (ma anche un pubblico più vasto) avevano già avuto modo di apprezzare negli studi su Daniele Manin, poi in una fortunata storia novecentesca del nostro paese e infine, più recentemente, nelle pagine dedicate al Risorgimento e al romanticismo italiano. Paolo Macry
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