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Una faccia già vista - Roddy Doyle - copertina
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Una faccia già vista
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Una faccia già vista - Roddy Doyle - copertina
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Descrizione


Dopo aver preso parte alla lotta per l'indipendenza irlandese e aver fatto molto lavoro sporco che gli ha procurato qualche nemico e un mandato di morte, Henry Smart, già protagonista di "Una stella di nome Henry", abbandona l'Irlanda per approdare nella città delle grandi occasioni: New York. È il 1924. E nell'America del proibizionismo Henry ricomincia da zero, spostandosi da New York a Chicago e guadagnandosi da vivere con mestieri ingegnosi: fa l'uomo-sandwich, il cavadenti, il rabdomante e il modello per immagini ardite, per ritrovarsi infine a diventare l'improbabile braccio destro del giovane Louis Armstrong. Ripercorrendo le infinite fughe ed avventure dell'infaticabile Henry, sempre contraddistinte dalla sua incredibile capacità di cavarsela, Roddy Doyle ci racconta l'America degli anni Venti, la Chicago del jazz e dei conflitti razziali, un mondo con ingiustizie e soprusi ma pieno anche di vita, di musica e di energia.
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Dettagli

TEA
2007
Tascabile
18 gennaio 2007
441 p., Brossura
9788850212958
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Indice


Le prime frasi del romanzo:

PRIMA PARTE
1

Potevo imboscarmi a New York. Lo capii subito, già dalla nave, quando passò sotto la Statua della Libertà in un'alba fredda che spuntò rapidamente dietro di me e disperse la nebbia dall'acqua color lavagna. Era Manhattan, quella, che già mi sovrastava. La gente che mi circondava mi apparve minuscola al confronto, tutti a fissare a bocca aperta le scogliere artificiali e le altre scogliere ancora più alte alle loro spalle, che si perdevano a vista d'occhio verso l'America e ostacolavano il loro ingresso. Vedevo il terrore nei loro occhi.
Quegli occhi potevo guardarli senza timore di essere riconosciuto. Non erano volti irlandesi, quelli, e non era fango irlandese quello che imbrattava gli orli dei loro cappotti. Erano stati trascinati per tutta Europa, quei cappotti. C'erano intere famiglie, tre o quattro generazioni; gli irlandesi invece viaggiavano da soli. C'erano le vecchie decrepite dai volti sfatti e maligni, che tenevano strette le borse portate con sé attraverso il continente, piene di spago e gusci d'uovo e pietre staccate dai muri di case perdute. E alle loro spalle i mariti, nascosti dietro la barba, dagli occhi ancora giovani e combattivi. Sorvegliavano le valigie e gli scatoloni ai loro piedi. E i loro figli e nipoti, maschi e femmine, con gli scialli ricamati e i berretti neri, e bambini ancora più piccoli e ragazze incinte con giovanotti magri seduti o in piedi accanto a loro, tutti intimiditi dalle scogliere della città che si avvicinava. Perfino i più piccoli intuivano che non era il momento di lasciarsi prendere dall'eccitazione e se ne stavano zitti, mentre la scia del Reliance mandava piccole onde a infrangersi sulla costa di Bedloe Island e su quell'enorme femmina di pietra - mandateli da me, i senzatetto, sballottati dalla tempesta - e i genitori e i nonni tremavano al cospetto del Nuovo Mondo e cercavano di capire se quello che stavano guardando era il davanti o il didietro. Ero l'unico uomo solo, l'unico che non aveva paura di quello che si stava avvicinando e si faceva sempre più grande davanti a noi. Qui sì che un uomo poteva sparire, poteva morire, se voleva, e poi tornare alla vita, grande e bella.
Ero arrivato.
Ma ci lasciammo Manhattan alle spalle e andammo avanti a navigare verso la costa del New Jersey, rituffandoci quasi nel buio della notte. Il silenzio intorno a me si faceva sempre più profondo, mentre l'isola ci spuntava davanti. Era l'ultimo tratto del Vecchio Mondo crudele e portava lo stesso nome in tutte le lingue che si sentivano a bordo, man mano che ci avvicinavamo: l'isola delle lacrime, die Träneninsel, the isle of tears. Ellis Island.
Centinaia di piedi che si trascinavano intrappolati sotto la volta della grande sala; l'aria era piena dei sussurri dei milioni di persone passate di lì, dei pianti di quelli che a migliaia erano stati fermati e rispediti indietro. Tesi l'orecchio alla ricerca del picchiettio di una famosa gamba, ma non sentii niente. I vecchi cercavano di raddrizzare schiene ormai curve da tempo e le madri strofinavano le guance pallide dei loro bambini per colorirle un po'. Uomini dall'aria selvaggia si passavano le dita nella barba incolta e rimpiangevano di non essersi rasati prima di sbarcare. Le donne ebree accarezzavano i riccioli dei propri figli e tentavano di ficcarglieli sotto il cappello. Pezzi della nuova lingua venivano provati e passati di bocca in bocca.
« Sì, signore. »
« No, signore. »
« Mio cugino, avere casa. »
« Sono un contadino. »
« Qu-eeens. »
L'ispettore medico mi guardò dritto negli occhi. Sapevo cosa stava cercando. Mi aveva spiegato tutto un anarchico zoppo e ansimante che era al suo settimo tentativo di sbarco.
«Vedono la gamba che zoppica e non il cervello» mi aveva detto. «Idioti. Quando finalmente capiranno che sono troppo pericoloso per il loro paese, allora sì che sarò felice di tornarmene indietro. Ma fino a quel momento continuerò a fare il pendolare tra Southampton e la loro Ellis Island. »
« Se potessi pagarti la prima o la seconda classe » gli dissi, « non dovresti neanche metterci piede, sull'isola. » «Credi che non me ne sia reso conto?» mi rispose. «Me lo posso permettere. Ma non voglio. »
L'ispettore cercava segni di tracoma nei miei occhi e di follia dietro. Non fu capace di fissarmi troppo a lungo (nessuno ci riusciva) e non vide alcun motivo per rispedirmi indietro. Alla mia sinistra, un altro ispettore tracciò una grossa L su una spalla con un gessetto nuovo di zecca. L stava per lung, polmone. Conoscevo i sintomi; era una vita che li vedevo. L'uomo con la sua L nuova di zecca si era già arreso. Crollò in uno spasmo di tosse e per poco non ci lasciò quel brandello di vita che gli restava. Dovettero portarlo via di peso. Una E sulla spalla indicava gli occhi, un'altra L per gli zoppi. E oltre a quelle lettere ce n'erano altre, nascoste, che non venivano mai tracciate col gesso sulla spalla: J per chi era troppo ebreo, C per i cinesi, SE per chi veniva da troppo a sud e a est di Budapest. H era per il cuore, SC per il cuoio capelluto, X per i pazzi.
B stava per Bellissimo.
Le guardie si fecero da parte e io avanzai di qualche passo fino alla scrivania successiva. Feci risuonare i tacchi sulle piastrelle. Due belle sorelle si tennero abbracciate quando le respinsero. Senza genitori né figli, era fin troppo probabile che cadessero nelle mani di qualche malintenzionato che le aspettava sui moli di Manhattan o del New Jersey. Se erano fortunate, le avrebbero tenute sull'isola fino a quando avessero trovato qualche parente che venisse a prenderle; con meno fortuna gli avrebbero messo le mani addosso prima di lasciarle entrare; con meno ancora sarebbero state espulse, mandate indietro ancora prima di essere arrivate.
Allungai il passaporto e i documenti al funzionario dell'Ufficio immigrazione. Lui aprì il passaporto e ci trovò dentro il biglietto da dieci dollari che ci avevo infilato. La banconota sparì ancora prima che mi accorgessi che non c'era più. L'avevo portata via all'anarchico ansimante; era una perdita che non mi pesava. Poi il funzionario attaccò il ritornello, le domande che non potevo sbagliare.

Valutazioni e recensioni

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viola
Recensioni: 1/5

Non mi era mai successo di abbandonare un libro verso le ultime 20 pagine...non ce l'ho fatta, non ne potevo più....voltavo le pagine in cerca di un senso ma i dialoghi all'americana scritti da un irlandese (direi triste), tutti migliori amici di smart che è il più bello, il più forte, il più fico...ma insomma il libro se fosse finito 200 pagine prima forse avrebbe meritato un 3, anche un 4 ma andare avanti così è pura agonia per chi legge. volevo finirlo ma proprio non ce la faccio...mi dispiace , mi è simpatico doyle ma se non si ha niente da dire è meglio restare in silenzio no? si fa più bella figura.

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matteo
Recensioni: 3/5

mha....ad essere sincero mi è piaciuto decisamente molto di più "Una stella di nome Henry".Questo l'ho trovato interessante ed avvincente in alcuni tratti ma noioso e inconcludente in altri....speriamo che il seguito (che per forza deve esserci) sia migliore e più "irlandese"

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Gabriele Cialfi
Recensioni: 1/5

Evitatelo. Se deve essere il primo Doyle della vostra vita, iniziate da dove volete (perfino da "La donna che sbatteva nelle porte", piuttosto), ma evitate questo: lo deve avere firmato senza leggerlo prima ...

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La recensione di IBS


“Hettie si sbagliava. Quello era un mondo nuovo, sempre più nuovo man mano che ci si avvicinava ai quartieri alti. Più grande, più largo, più scintillante. Guardai fuori, mi sporsi nella vera Manhattan. Beep Beep ci portò fuori dall’ombra della sopraelevata e lassù un alto c’era il cielo, in cima ai muri che venivano giù a perpendicolo.”

È irlandese la faccia già vista del titolo: è quella di Henry Smart (ricordate Una stella di nome Henry?), in fuga dal suo paese natale dove non tutti lo ricordano con affetto. In Irlanda, una terra difficile, densa di conflitti e di occasioni pericolose, lascia una moglie praticamente sconosciuta, la cui fotografia conservata nel portafoglio sbiadisce nel tempo, una figlia tenuta in braccio una volta soltanto, alcuni amici, ma soprattutto molti nemici da cui scappare. La migliore meta è il Nuovo Mondo, da raggiungere con un nome falso, Henry Drake, subito abbandonato in favore di un altro, Glick (per non tornare al proprio), ma senza pubblicizzarlo troppo in giro perché sarebbe troppo facile in ogni caso ritrovarlo per tipi come Johnny No o & Figlio, o per altri uomini del suo passato, gente capace di tutto.

Un lavoro, ci vuole un lavoro nella New York del 1924, nel pieno del proibizionismo americano, e la nostra voce narrante lo trova, facilmente, nel campo della pubblicità. Ha una faccia già vista, Henry, ma una faccia anche piacevole che aiuta a introdursi in molti ambienti non solo professionali e raccogliere fiducia.

Roddy Doyle scrive un romanzo di grande livello sia per la storia importante che racconta, che per il modo, brillante e intelligente, che ha di farlo. Una versione irlandese di romanzi come Il Padrino, o di film come C’era una volta in America: è l’occhio di un americano-non americano (quello di Doyle, ma anche del protagonista), lo sguardo europeo che legge i fatti in modo differente, non perdendo le proprie radici e i legami, forti, con la terra d’origine.

Straordinaria anche a capacità dello scrittore irlandese di ricostruire le strade, le case, i negozi, gli arredi, le abitudini del piccolo quotidiano, le voci, il linguaggio di un modo, quello dell’immigrazione americana d’inizio Novecento, dal momento in cui i protagonisti si alzano la mattina prestissimo a quando vanno a dormire la sera, non tutti e non sempre sobri.

Particolarmente efficace la chiave che utilizza per entrare in questo mondo, una professione ormai dimenticata ma che in quegli anni faceva vivere molte persone: l’uomo-sandwich che con cartelloni pubblicitari che reclamizzavano negozi, botteghe e attività commerciali in genere, batteva i marciapiedi di New York e altre metropoli americane, cercando di colpire e attirare il maggior numero possibile di clienti. Una bella faccia e un bel portamento: i segreti fondamentali del mestiere, che il nostro Henry scopre subito di possedere. Così come si accorge ben presto che quel proibizionismo imperante può essere anche fonte di guadagni (e di guai) imprevisti. Di nuovo in fuga, e ancora una volta la chiave per entrare nel Nuovo Mondo e diventare uno yankee è quella del lavoro: da modello hard a cavadenti e rabdomante, a scaricatore di casse sino a incontrare a Chicago (e lo anticipa la copertina di Guido Scarabottolo) un grande jazzista, Louis Amstrong (Il Più Grande Trombettista del Mondo) e a legare a lui il proprio futuro. Magistrale il modo in cui Doyle riesce a descrivere il mondo degli americani giunti in questa terra ormai da troppe generazioni per ricordare i legami antichi, e il forte senso di appartenenza a una minoranza e radici differenti dei nuovi arrivati e dei neri. Lo scrittore dà vita così a una mescolanza di personaggi che viaggiano sul limite dell’illegalità, o la superano, che vivono nel rimpianto del passato o nella speranza ottimistica del futuro, che cercano una via d’uscita e magari riscoprono proprio ciò da cui stavano scappando: un affresco dell’America in fermento tra gli anni Venti e Trenta rappresentata da una faccia, quella di Henry Smart, che non dimenticheremo facilmente.

A cura di Wuz.it

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Conosci l'autore

Roddy Doyle

1958, Dublino

Si laurea in Lettere (Bachelor of Arts) per poi proseguire i suoi studi alla University College di Dublino.Insegna per quattordici anni inglese e geografia alla Greendale Community School di Kilbarrack, a nord di Dublino (la trasposizione reale della fittizia Barrytown che spesso fa da sfondo a molti suoi romanzi). A metà degli anni Ottanta Doyle inizia a scrivere un racconto dal titolo Your Granny's a Hunger Striker che non è stato mai pubblicato. Dopo qualche anno esce il suo primo romanzo, pubblicato in proprio grazie all'aiuto di un amico che riesce ad avere i finanziamenti necessari da una compagnia di proprietà del defunto Re Farouk. È il romanziere che più di ogni altro ha saputo raccontare l'Irlanda dei nostri giorni, come in The Commitments (la storia...

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