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Tutto comincia la sera del 16 marzo 1949, quando il protagonista fa il suo ingresso da neo assunto in fabbrica, con la mansione di scovazzino «devo scopare il carbone nell'altoforno». Il suo capoturno è Fausto, che subito spiega: «La fabbrica c'ha un centro e quel centro è l'altoforno. E noi stiamo al centro della fabbrica». Parte da qui la lettera alla madre, attraverso cui il narratore di questo romanzo-piece dipana la storia di una fabbrica italiana. E la storia della fabbrica è innanzi tutto la storia dei suoi operai, e soprattutto di Fausto, il capoturno a cui manca una gamba e perciò «c'ha l'assunzione di ferro che a quelli che c'hanno la disgrazia non li manda via manco Gesucristo dalla fabbrica». E prima ancora che di Fausto, è la storia del nonno di Fausto e del padre di Fausto, anche loro di nome Fausto. Lo scorrere veloce di queste tre vicende umane che incrociano quelle di Paride Pietrasanta, il padrone, di Assunta, la tabaccaia ex operaia, bella come una Madonna, al cui impronunciabile segreto si lega la scomparsa di un nutrito gruppo di operai , ci restituisce cinquant'anni di storia italiana. Un racconto che affabula il lettore grazie alla raffica di parole di Ascanio Celestini, «la macchina parlante», che porta in scena, e sulla pagina, uno spettacolo di storia patria in tuta blu. E in questa lettura che va giù d'un fiato tra suspence e ricordi, ritroviamo col sorriso e qualche amarezza la memoria di un passato che ci accompagna nel presente, il nostro, quello di fabbriche in dismissione, di rinnovate lotte sindacali e della ricerca di nuove identità.
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