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Félicité de Lamennais, Sergio Romano, William Spaggiari eAlberto Melloni
L'EUROPA GIUDICATA DA UN REAZIONARIO
Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi
pp. 152, € 15,
Diabasis, Reggio Emilia 2005
Tra i repéchages più allusivi e intriganti che la discussione sui destini dell'Europa ha stimolato ecco ricomparire i malfamati Dialoghetti sulle materie correnti nell'anno 1831 di Monaldo Leopardi, comparsi anonimi a Pesaro appunto tra la fine del 1831 e l'inizio del 1832, qui ristampati seguendo la sesta edizione: che rispecchia la volontà definitiva del burbero autore. Strepitoso fu in tutta Europa il successo di un libello che sembrò dar voce a quanti avevano seguito con apprensione la rivoluzione parigina del luglio 1830 e la successiva concessione della nuova carta costituzionale da parte di Luigi Filippo d'Orléans. Di fronte a tanta incertezza, Monaldo, attraverso la trama di accattivanti e teatrali dialoghi tra figure della mitologia politica (la Giustizia, la Libertà, la Moderazione, la Francia, l'Italia, l'Europa), difende con sarcastica ribalderia le sue incrollabili convinzioni di coerente difensore del vecchio ordine.
Alberto Moravia, in un'edizione del ruvido pamphlet, uscita non a caso nel 1945, istituì un parallelismo non immotivato: "Ci si sente (…) aria di Strapese???, quest'ultimo fiore fascista del sanfedismo e del provincialismo italiano". L'Europa che Monaldo rimpiange consiste in un'immobile condizione naturale, allergica alle manovre della politica e in tutto dipendente dai disegni di un Dio che è l'unica fonte legittimante del potere esercitato dai sovrani. Una battuta del primo dialogo ha la perentorietà di una massima: "La Politica – ammonisce Europa – non deve mai scompagnarsi dalla giustizia e dalla religione". Il crollo dell'ancien régime è per lui una sorta di finis Europae.
Chi ora chiosa il testo, riproposto insieme all'attacco che gli rivolse nel 1834, con antiveggente lucidità, Félicité de Lamennais, non si fa prendere dal gusto di sbrigative comparazioni. Eppure è innegabile la sintonia tra la polemica che oppose il conte di Recanati e il prete bretone che ricercava una praticabile sintesi tra liberalismo e cattolicesimo. In Monaldo agiva una presunzione fondamentalista, che vedeva l'edificio europeo basato su una religione assunta come esclusivo instrumentum regni, Lamennais sentiva il cristianesimo nella sua dimensione universale: "La dottrina cristiana secondo cui, conformemente alle tradizioni antiche, il genere umano proviene da un unico ceppo è dunque in modo incontrovertibile la più favorevole all'umanità, e dev'essere preservata con cura come il fondamento stesso di ogni giustizia distributiva e di ogni società equa".
Alberto Melloni insinua con prudenza un raccordo con le controversie dei nostri giorni. Da un lato gli eredi – consapevoli o no – di Monaldo ribadiscono la necessità di concepire l'unità del continente su radici religiose – e la metafora naturalistica ha una sua suggestiva pregnanza –, mentre chi promuove un'interpretazione laica e liberale dell'eredità cristiana "esalta l'esperienza di fede e la sua identità più profonda che è quella dell'accoglienza dell'altro nella sua alterità come sacramento di colui che è totalmente Altro e totalmente Prossimo". Così è?
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