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L' età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi
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1985
1 gennaio 1985
2 voll., XXXII-1184 p.
9788824305730

Voce della critica


recensione di Haskell, F., L'Indice 1986, n. 8

Franco Venturi appartiene, con Croce, Salvemini, Momigliano (e in anni più recenti Carlo Ginzburg), a quel gruppo relativamente ristretto ma estremamente eterogeneo di storici italiani del novecento che sono non meno noti all'estero che in Italia. Questo spiega l'inconsueta dimensione internazionale di questi due volumi di saggi scritti in suo onore in occasione del settantesimo anniversario e, se vogliamo introdurre una nota più lieve, anche il fatto che a recensire la pubblicazione su una rivista italiana sia stato chiamato uno straniero.
L'eccezionalità di Venturi risiede però non solo in questo, ma nell'estensione dei suoi interessi e dei suoi lavori: una bibliografia di 164 pubblicazioni è un documento impressionante quanto stimolante, tale da far pensare che in realtà una sola persona potrebbe veramente rendere giustizia agli studi qui raccolti per festeggiare Franco Venturi, ed è Franco Venturi stesso. E questo nonostante il fatto che dei due grandi campi di ricerca storica a cui egli ha dato un contributo non solo grande, ma addirittura essenziale, quelli della Russia dell'ottocento e dell'Europa del settecento, solo il secondo sia rappresentato ne "L'Età dei Lumi". Per questo motivo uno storico dell'arte, come io sono, pur restando inevitabilmente colpito dall'assenza di qualunque ricerca sull'arte sia in questi volumi sia nelle opere dello stesso Venturi (nonostante il fatto che suo padre e soprattutto suo nonno abbiano prodotto opere di così grande rilievo in questo ramo della storia), può quanto meno mascherare da distacco la sua ignoranza e accostarsi a questa Festschrift con un atteggiamento di innocente e disimpegnata curiosità per lo stato attuale della storiografia sull'Illuminismo.
Un recensore di questo tipo deve affrontare innanzitutto un dubbio, ed è un dubbio che riguarda la natura stessa del problema in discussione. I primi tre saggi, di Crocker, Lough e Vernière (un americano, un inglese e un francese), sollevano tutti, ciascuno a suo modo, il problema se sia ancora possibile caratterizzare "l'età dei lumi" con quegli aspetti di consapevole progresso e di rottura con il passato che sono sempre stati dati per scontati; o meglio, concordano naturalmente, come tutti gli storici, sul fatto che nel diciottesimo secolo è successo qualcosa di decisivo, ma si chiedono quando questo qualcosa di decisivo sia accaduto, con un tono di incertezza che riuscirà familiare a quanti si siano occupati della storiografia del Rinascimento. Occorre osservare che nessuno di questi tre autori, n‚ di tutti quelli che hanno contribuito ai due volumi, mette in discussione la validità e la desiderabilità dei mutamenti apportati dall'Illuminismo, come spesso hanno fatto gli avversari del razionalismo e della libertà già a partire dalla fine dello stesso diciottesimo secolo e come oggi è diventato di moda sostenere tra gli esponenti della "nuova destra" (anche se, come osserva Diaz in un efficace saggio, la "Sinistra" spesso non è stata da meno nel minimizzare o addirittura ridicolizzare le conquiste dei philosophes). Si nota nondimeno una qualche incertezza ed esitazione ad usare termini come lo stesso "Illuminismo", il che colpisce in modo particolare perché l'esitazione e il dubbio certo non erano caratteristici dei battaglieri autori del diciottesimo secolo, e neanche di Franco Venturi.
La prima opera della bibliografia di Venturi è dedicata a Diderot, il più aperto, umano, consolante e attraente dei philosophes: apparve nel 1937, cioè proprio quando le ombre cupe e sinistre di Franco e di Stalin, di Hitler e di Mussolini si allungavano a spegnere le lumières in tutta Europa e a schernire tutto ciò di cui Diderot si era fatto campione. Da allora Venturi ha sempre e insistentemente utilizzato l'adesione alle idee illuministe come una specie di termometro con cui misurare la salute morale dell'Europa: per esempio l'influsso di Beccaria o dei principi della rivoluzione americana si può rinvenire non solo nelle politiche dei governi russi o degli stati italiani, ma anche nei trattati teorici e nei giornali di provincia, dal più oscuro al più ragguardevole. E forse non c'è da stupirsi che le arti abbiano un ruolo così secondario in una concezione della storia di questo tipo, poiché lo stesso settecento non di rado aveva espresso la preoccupazione che i suoi ideali e le sue convinzioni potessero entrare in conflitto con le esigenze dell'immaginazione.
Venturi, profondamente consapevole degli insuccessi e delle sconfitte tanto spesso subiti dai propagatori dei lumi ad opera dei loro nemici (e quindi ben lontano dall'ingenuo ottimismo che così spesso ha improntato, e a volte ancora impronta, le storie del diciottesimo secolo), ha tuttavia visto la lotta tra gli uni e gli altri in termini molto netti di lotta del bene contro il male: troppa simpatia per la tormentata complessità dell'animo umano, e le semiconsapevoli seduzioni della sconfitta o addirittura del tradimento, potrebbero alterare la sua visione del mondo. In questo il suo atteggiamento è ben diverso da quello di Robert Darnton, che più di ogni altro storico recente ha contribuito a formare quella che è oggi la nostra concezione delle forze portanti del XVIII secolo, spostando l'attenzione dagli elevati ideali professati dai virtuosi philosophes alla pericolosa corruzione di tali ideali ad opera dei viziosi libellisti e pornografi che dalla società rispettabile erano esclusi. In un famoso saggio, dal titolo rivelatore di "A Spy in Grub Street", Darnton si mostrava affascinato dal gusto di districare le intricate manovre di Jacques-Pierre Brissot, unanimemente considerato, per dirla con le parole di Mornet, "l'immagine completa di tutte le aspirazioni di una generazione".
Darnton (senza dubbio ispirato anche da rivelazioni sensazionali sul comportamento occulto di certe figure apparentemente di alto sentire del nostro stesso secolo) usa abilmente le prove a disposizione per mostrare che prima della rivoluzione Brissot fu effettivamente al soldo della polizia segreta, come sostenevano i suoi nemici, ma questo ai suoi occhi ne fa una figura più vera e più viva della nobile immagine che Brissot riuscì a dare di se stesso. Vorremmo dire che questo "nuovo" Brissot parrebbe a volte più nel suo ambiente tra i rivoluzionari clandestini e gli agenti doppi descritti con tanta efficacia da Venturi in "Populismo russo". Ma il Venturi di "Settecento Riformatore" non può ammettere che possa esserci un margine all' inevitabilità nel passaggio da un idealismo frustrato all'attività di libellista prezzolato e mouché, e si limita a chiedersi: "Accettò di servire in qualche modo la polizia parigina? È possibile, anche se non certo". Per Venturi l'importanza di Brissot risiede nel fatto che "era riuscito, malgrado tutto, ad esprimere idee originali e significative", mentre agli occhi di Darnton la sua importanza deriva non dalla sua riuscita, ma dal suo fallimento: "Anche gli altri libellisti attivi negli anni ottanta del settecento probabilmente odiavano il sistema sociale e accettavano i necessari compromessi non meno di Brissot. Anch'essi erano fatti di carne e ossa e avevano famiglie da mantenere, ambizioni da soddisfare, piaceri da ricercare. I loro fallimenti e le loro frustrazioni nel vecchio ordine possono dare la misura della loro adesione al nuovo, e, dal loro punto di vista, la rivoluzione può essere considerata una carriera".
Non potrebbero esserci due modi più diversi di studiare le forze profonde che (a posteriori) sembravano condurre la società verso la rivoluzione, sia quella del 1789 sia quella del 1793: da una parte l'orecchio straordinario di Venturi, capace di cogliere i segni più impercettibili e più nascosti del pensiero illuminato, a Stoccolma come a Napoli, a Pietroburgo come a Lisbona; dall'altra la tesi di Darnton che questo pensiero abbia avuto impatto limitato, quasi una semplice increspatura di spuma sulla superficie di un crogiolo in fondo al quale le ambizioni represse e la ricerca senza scrupoli del successo negli affari e della vendetta andavano confusamente raggiungendo il punto di ebollizione. Anche in questo volume Darnton, in modo analogo ma meno insistito, attinge ai rapporti di polizia nel suo affascinante saggio sul problema di come venissero considerati gli "uomini di lettere" nella Francia della metà del settecento: ancora una volta non sono le idee ma il "sistema", il sistema di clientela e di protezione, ad attirare l'attenzione sua.
Il contributo di Darnton, come era prevedibile, non è rappresentativo della maggior parte di quelli contenuti in questi volumi, che tendono piuttosto a occuparsi di quei trascinanti avvocati della ragione e della libertà e dell'umanità che sono al centro degli interessi dello stesso Venturi e che contribuiscono a rendere così confortante e, oggi, così stimolante lo studio del pensiero del diciottesimo secolo. A guardarli da questi nostri tempi di troppi inganni e troppo poca ragione, i valori propugnati dai philosophes e dai loro seguaci sembrano assumere un ruolo simile a quello che "l'età della fede" ebbe nella prima metà del secolo diciannovesimo per i conturbati intellettuali cristiani in Inghilterra, in Francia e in Germania. Questi problemi sono ancora con noi, e occuparsene è un'operazione di grande interesse, ma in una rassegna rapida come questa, che intende solo mostrare l'importanza del tributo reso a Venturi, non sarebbe possibile parlare per esteso di altri singoli articoli de "L'Età dei Lumi" (che comprende saggi dei più interessanti storici di oggi, italiani, francesi, inglesi e americani). Occorre però sottolineare che anche a un profano appare chiaro come tutti gli autori abbiano saputo evitare il pericolo troppo spesso incombente e quasi connaturato al concetto stesso di Festschrift, e cioè la frettolosa produzione di un pezzo soltanto per dare temporaneo sollievo a un senso di colpa, nella convinzione che poi non verrà preso in seria considerazione. "L'Età dei Lumi" è ben curato e forma un insieme coerente, lo standard è elevato e chiaramente riflette la giusta stima per la statura eccezionale di Franco Venturi, che per così lungo tempo ha mostrato una conoscenza senza pari della storia del diciottesimo secolo. Non tutti gli storici condivideranno la sua concezione di quel secolo, ma nessuno potrà, n‚ vorrà, ignorare che l'orientamento di base della sua ricerca e che è ampiamente ed efficacemente dimostrato da questi ammirevoli volumi.

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