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«Ma voi dov’eravate quando c’ero,quando solo con l’ombra vi aspettavo,
ospite di un dolore che si perdeoltre la luna che più in là è settembre?»
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Scarabicchi esamina la trama indecifrabile della vita sezionandola in una cifra poetica fatta di impalpabile leggerezza e di conclamata leggibilità, nel disperato tentativo di afferrarne la concretezza con la punta sagace delle proprie dita. Le intermittenze del dolore e dello stupore per la vita che stiamo perdendo, hanno sedimento in lui un distillato di angoscia che tuttavia non gli impedisce di attraversare il sentiero per nulla consolatorio della parola, con la grazia non falsificante propria dei poeti che vogliono ferocemente restare sé stessi. “L’esperienza della neve” è in larga parte un epistolario in versi articolato in componimenti adeguatamente virgolettati ed indirizzati ad entità dai contorni per lo più indefiniti, tra il percettibile e l’impercettibile. Creature fluttuanti nello stato semitrasparente della sua memoria, a cui si rivolge per ritrovare i segni di una stralunata pietà, le testimonianze vive di un’umanità, animato dalla nostalgia e dalla dolcezza di una speranza silenziosa. È prevalentemente poesia affettuosa, che riesce a dire io solo nella misura in cui pronuncia un Tu, filtrata talvolta dalla cadenza affabile dei ricordi e dalla necessità di riassaporare quel puro slancio che la vita rinchiude inesorabilmente, giorno dopo giorno, nell’antro più recondito del nostro animo. Sono segni quasi immaginari che il poeta traccia nei solchi in larga parte binati dei versi, modulandoli attraverso il disposto armonico di un endecasillabo tradizionale, benché adattato alla forma epistolare, che ci trascinano lungo la china interrotta di una riflessione che pensa per oggetti, per presenze, per forme tangibili e non per stampi o categorie. Ciascuno potrà percorrere le poesie di questa preziosa silloge incontrandovi sentieri interrotti da radure improvvise in un risalto di continuità e di limpidezza mai offuscate dall’uso sottile e raffinato di una forma chiusa
Recensioni
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L'autore stesso definisce questo suo libro "una sorta di epistolario in versi": i singoli testi, quasi tutti scrupolosamente virgolettati, si dirigono più o meno esplicitamente verso un tu che li motiva. Ma è la struttura stessa del libro a risultare molto sofisticata, "professionalmente" definita secondo un sistema di soglie complesso e compatto che ne fa anche un luogo ideale di drenaggio di una tradizione del Novecento che ha visto Scarabicchi, da anni situato in un'evidenza discreta quanto prestigiosa, anche in veste di attento osservatore del costume, letterario e civile, sempre criticamente posizionato nell'epicentro di quella regione marchigiana che oggi sembra costituire nel suo complesso il fenomeno territorialmente più denso e sorprendente dei lavori della poesia nazionale.
Su questa edificatissima architettura, dunque, è montato un sistema unitario di comunicazione metrica e melica tanto caratteristico nell'autore, così da far pensare a un secondo grado della spontaneità. Predomina la presenza di strofe di versi binati, rigorosamente (salvo minime eccezioni) endecasillabi ritmati secondo i criteri più tradizionali, e quindi chiaramente in controtendenza rispetto alle sterminate pratiche di uso di una metrica mascherata e sperimentale in vista in questi anni. Qui siamo in presenza - salvo rare lasse in versicoli o prose liriche - di un endecasillabo "disarmato", ondulatorio e appunto propriamente epistolare: tale che, grazie alla sua metodicità, ha la possibilità di lasciar fluitare via i significati incorrotti, di limitarne l'esposizione a un tempo fluido; tanto più in quanto la perizia di Scarabicchi evita accuratamente lo sfoggio di aggettivi qualificativi ornamentali.
Egli stesso ci avverte circa "un orizzonte meridiano e mediterraneo" entro il quale ha posto radici il suo immaginario e che genera anche una sia pur discreta poetica dell'occhio: è un Oriente adriatico di contrasti e sussulti tenuti uniti da una tecnica generale che aspira a un sistema chiuso di segni (clus, anche in senso cortese), nella direzione di una lirica privata e iniziatica fondata su ipotesi sistematiche la quale, nonostante l'apparente trasparenza, apre ("A lungo ti ho pensato, mia ferita, / ossa di vetro, denti, un urlo strano // per quegli occhi che perdono la via / e non sanno cos'è l'onda del nero // che trema un vento gelido, se taglia / labbra e felicità dopo il respiro...") su squarci di terrore, scalfitture e punture subito ricondotte alla "normalità" e ritualità dell'esistere.
La motivazione generale di questi versi è data da una molteplicità di schemi di relazione inclusi in una opzione per la quotidianità, fondati in particolare sulla dualità, sul tutoyer come specchio della mancanza, sul modello di un'intonazione sommessamente esclamativa. Ed ecco che, proprio in questi termini, si capisce che nel ripetersi dell'impulso ritmico c'è una tendenza, in sé drammatica, alla familiarizzazione con le sintomatologie dell'abituale; è una metrica che è diventata confidenziale come atto riparatore di un reale caricato di ansia, di incertezza e ribaltabilità continue, impegnato a imprimere nel messaggio una misura di energia stoica. Questo intimismo dominante non è dunque una forma di autosequestro rispetto al reale storico: è piuttosto il percorso attraverso il quale viene legittimata l'unica vita, giocata tutta nel mondo, ad acquisire pienamente il senso di se stessa, il proprio non provvisorio potere realizzante.
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