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La poesia di Mariagiorgia Ulbar sembra esprimere la rassegnazione, l'impotenza, l'impossibilità di progettare un futuro di tutta una generazione. La sua scrittura esprime un sofferto, lacerato disorientamento, senz'altro più esistenziale che culturale. Perché i mezzi espressivi ci sono tutti, a partire da una tradizione novecentesca - soprattutto mitteleuropea - ben assimilata. Troviamo in lei una consapevolezza formale già matura, il dominio di formule retoriche collaudate (anafore, ellissi, sinestesie), l'attenzione descrittiva al paesaggio. Tuttavia, di che paesaggio si tratta? Città costiere dai porti fumosi, litorali ingombri di rifiuti, raffinerie, piattaforme industriali, lamiere, tubi. Quando non è marittimo, il panorama diventa campestre, ma brullo, desolato, lercio: "Qui mi sporcano la polvere, il catrame/ gli incarti di pasti già mangiati", "Sotto le rotaie e sotto il fiume/ vivono i topi...". Un esterno sempre squallido e minaccioso, da cui bisogna scappare per salvarsi, senza sapere dove trovare scampo, in che modo sfuggire a incendi distruttivi e dolosi, ricorrenti come incubi, e a scenari di persecuzione bellica. Il fatto è che Mariagiorgia e la sua generazione, una guerra non l'hanno mai vissuta ("e a noi è mancata una guerra/ mondiale, ti ho detto all'improvviso"): le loro catastrofi, le tragedie e i terremoti sono sempre individuali, mai collettivi, e assumono dimensioni squassanti da cui non ci si può, o non ci si sa, difendere ("noi siamo quelli che non disturbano mai"). Per questo il j'accuse silenzioso e tanto più doloroso e ricattante verso la generazione matura diventa nei versi pesantissimo, quasi insostenibile, riflettendo però anche un'implorante richiesta di aiuto. Mariagiorgia Ulbar si fa portavoce di una collettività letteraria giovane, spaesata, intimorita ma solidale e affine anche nella scelta dello stile poetico, intimista, mai urlato, più consapevole di memorie che desideroso di futuro.
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