Il 30 gennaio 1945 rappresenta la cesura più drammatica nella vita di Christa Wolf: quel giorno lei, sedicenne, insieme a tutto il gruppo familiare costituito da sedici persone, sale su un autocarro procurato da uno zio per lasciare definitivamente la città natale, Landsberg an der Warthe, attualmente in Polonia. L'Armata Rossa sta avanzando verso Berlino, distante poco più di cento chilometri, e dai territori orientali del Reich un fiume di profughi tedeschi si mette in cammino verso ovest. Dapprima gli abitanti di Landsberg si credono al sicuro e non pensano alla fuga, finché le notizie che trapelano dal fronte non lasciano spazio a dubbi. E allora bisogna scegliere ciò che si ritiene indispensabile: fare i bagagli e prender congedo da ogni cosa. A questo commiato sono dedicate alcune delle pagine più intense di Epitaffio per i vivi. La fuga. Si tratta di un testo inedito risalente all'inizio degli anni settanta, pubblicato ora dal lascito. È narrato in prima persona, ed è di intensa rievocazione autobiografica, anche se i nomi propri sono modificati. Quando tutto è pronto e la famiglia è già sull'autocarro ecco l'avvenimento inatteso e inspiegabile: la madre Charlotte, che ha messo sul veicolo la protagonista col fratello più piccolo, decide di restare, lasciando partire i figli con gli altri, senza di lei. La donna non rimarrà a lungo a Landsberg, partirà di lì a poco e in qualche modo raggiungerà i due figli e gli altri familiari. Non per questo quell'abbandono in un momento così cruciale e l'interrogativo che tale azione pone perde di drammaticità. Il testo si snoda lungo tale quesito, con frequenti interpolazioni di episodi dell'infanzia, ricordi che, proprio per capire meglio la madre e il rapporto con lei, vengono interpellati, anche tramite la minuziosa ricostruzione delle fotografi, andate perdute, ma vive nella memoria. Il lungo racconto presenta molteplici motivi di attrazione, e non solo per il vasto pubblico di Christa Wolf. Permette infatti di affacciarsi in quella che per ogni autore è la riserva aurea della propria scrittura, il vissuto dell'infanzia e dell'età della formazione. Le lettrici e i lettori di Christa Wolf avevano già avuto questo piacere con Trama d'infanzia (Kindheitsmuster, 1976), un romanzo che deve il suo grande successo anche a un altro filo conduttore che ne attraversa le pagine: l'interrogarsi sulla manipolazione delle coscienze e sulla adesione incondizionata al nazismo da parte dell'adolescente protagonista. Con Epitaffio per i vivi ci troviamo di fronte a un testo che si confronta con gli stessi avvenimenti narrati in Trama d'infanzia, e tuttavia non ne costituisce un semplice abbozzo preparatorio, come ci si potrebbe aspettare da un'opera scritta precedentemente, rimasta inedita e ritrovata nel lascito. Anche se nati da una stessa sorgente i due testi si muovono in direzioni diverse, Epitaffio per i vivi non è un affluente, né un ramo secondario, ha invece un suo percorso autonomo; per esempio, la dimensione più politica presente in Trama d'infanzia, riassunta nella famosa domanda, posta al gruppo di profughi di Landsberg, da colui che in quanto comunista era stato internato: "Dove avete vissuto voi finora?", qui rimane sullo sfondo. Il collettivo "voi" però è presente come insieme dei vivi per i quali viene scritto il discorso funebre (Nachruf) del titolo. A guardar bene, il titolo originale è una sorta di ossimoro: come l'epitaffio del titolo proposto in italiano, si scrive infatti per i morti, non per i vivi; il Nachruf però implica uno sguardo retrospettivo sulla vita del defunto, uno sguardo che può far emergere aspetti anche meno noti con l'intento di accomiatarsi pure da essi, di dare loro sepoltura tramite la parola, la narrazione: uno dei fili rossi, questo, di tutta l'opera di Christa Wolf. Ed è un discorso che la narratrice in prima persona rivolge anche a se stessa, in quanto fa parte del gruppo degli scampati, dei sopravvissuti che proprio per questo hanno il compito etico di continuare ad interrogare il passato, per salvarne la memoria. Rita Svandrlik
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