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recensione di Moro, C., L'Indice 1996, n. 6
Postuma, quest'opera incompiuta di cui ci è giunto un moncherino, lo è sotto più rispetti. In senso editoriale, perché vide la luce nel 1780, due anni dopo la morte di Rousseau, e diciotto dalla data di stesura. Poi perché vuole essere l'epilogo dell'"Èmile", e non riesce a cancellare del tutto quel sentore di posterità dimidiata che ha il seguito di un libro famoso. Ma è postuma anche per l'atmosfera di cordoglio che la pervade.Abbiamo lasciato Èmile e Sophie in stato di grazia coniugale; ora ritroviamo il solo Èmile, sopravvissuto alla sventura e narratore affranto dei suoi casi in due lettere destinate al vecchio pedagogo che l'ha educato: la seconda lasciata a mezzo da Rousseau, che non smise però di affabulare intorno a finali possibili, raccontandoli agli amici e talora invitandoli a provvedere essi stessi alla bisogna.
Siamo grati a Jean Dusaulx e Bernardin de Saint-Pierre di essersene presi guardia. È infatti proprio l'incompiutezza a scongiurare l'effetto di sequel, a isolare "I solitari" come nitido frammento narrativo dalla ganga degli sviluppi e delle diramazioni romanzesche. Maggiore gratitudine va al curatore di questa prima traduzione italiana integrale, Giuseppe Merlino, che tratta il frammento alla stregua di un rotolo papiraceo esumato da una villa di Ercolano: lo maneggia con cura, ne compita magistralmente il detto e il non detto. E non potrebbe far meglio; se modi e luoghi del dramma - l'adulterio femminile, con confessione e annesso figlio della colpa - non sono originali e mostravano già allora una certa consunzione, reazioni e propositi del protagonista tradito distano dal contemporaneo galateo di ménage quanto le virtù stoiche dalle affettazioni dei cicisbei.
Un neostoicismo tutt'altro che generico e di maniera, il suo. Come Pierre Hadot nelle "Diatribe" di Epitteto ("Esercizi spirituali e filosofia antica", Einaudi, 1988), così Merlino riconosce nel calvario di Èmile le fasi tecniche degli esercizi spirituali che devono risanare l'anima appassionata e dolente; la fondamentale prosoché, l'attenzione per il presente che conduce a invigilare se stessi, a "non fare mai una cosa fantasticandone un'altra"; la mn‚me o rammemorazione, che fa tesoro di massime icastiche per disporne all'occorrenza: la meléte o meditazione, che si rappresenta le difficoltà per imparare a padroneggiarle.
Nei cinque libri dell'"Èmile" il precettore non si era speso invano.Anche all'adultera Sophie, pur non addestrata alla ragion teoretica, e forse neppure a quella etica, ma cresciuta nel rispetto delle convenienze sociali, tocca la sua modesta parte di megalopsych¡a, di grandezza d'animo.Tanto più che la vediamo agire attraverso il ricordo ferito di Èmile: all'inizio invocare inconsolabile i familiari morti; quindi corrompersi in una Parigi malfida, dove la distrazione del marito la abbandona alle trame di amici insinuanti; infine sparire e riapparire, docile alle intermittenze del soliloquio maschile che la evoca nelle mosse e contromosse di un'incalzante psicomachia. "L'indulgenza mi avrebbe umiliato... Sofia poteva essere colpevole, ma lo sposo che aveva scelto doveva essere al di sopra della bassezza.Queste sottigliezze dell'amor proprio erano nella sua natura e forse spettava solo a me coglierle".
L'impossibilità insieme di perdonare e di cedere al risentimento, e la prospettiva della solitudine, una solitudine che subentra al legame spezzato e nel plurale del titolo suona senza speranza, diventano elementi di stilizzazione: rendono eloquenti i dilemmi di Èmile, frugali i suoi bisogni, fermo il suo passo, abile la sua mano.L'angosciosa fuga per la città dopo lo "schianto del cuore" non tarda a distendersi nei ritmi ritrovati del vagabondare lontano da Parigi, mentre all'attardarsi sfinito e inoperoso viene in soccorso l'antico talento del lavoro manuale. Il novello falegname impara a dissipare a suon di pialla la malia preromantica del "sublime funesto" in cui è immersa la sua disperazione. Ma "I solitari" non si chiude su quest'immagine cristologica.Il gusto settecentesco per la peripezia esotica impone il "nomadismo del dispatrio": ecco Èmile addirittura schiavo e capo di una rivolta in Algeria, occasione ulteriore per saggiare le virtù sociali della morale stoica.
Il poco che sappiamo dei due finali fantasticati - dalle testimonianze di Pierre Prévost e Bernardin de Saint-Pierre, accluse da Merlino al frammento - non fa rimpiangere che siano rimasti allo stato di progetto.Entrambi pre-vedevano un'isola su cui far ap-prodare Èmile e fargli ritrovare una Sophie ravveduta e loquace, pronta magari a fornire dettagli sulle circostanze rococò del suo sviamento (libri licenziosi, cibi afrodisiaci, boschetti galeotti).In una versione la donna si dava schiava volontaria del marito, nell'altra moriva dopo averlo condiviso con una nuova moglie... Non ce ne voglia Rousseau, ma preferiamo congedarci da Èmile un po' prima, quando è ancora impegnato, secondo il precetto della Stoà, a "regolare il cuore sul proprio destino".
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