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MANRIQUE, JORGE, Stanze per la morte del padre
MANRIQUE, JORGE, Elegia per la morte del padre
(recensione pubblicata per l'edizione del 1991)
recensione di Poggi, G., L'Indice 1991, n.10
La diversa maniera in cui poeti e letterati intendono un tema universale come quello della morte è la spia più verace del loro rapportarsi, innovativo o conservativo, alla cultura che li esprime. In questo senso le "Coplas por la maerte de su padre" di Jorge Manrique, recentemente riproposte in due edizioni e traduzioni italiane, costituiscono il riflesso più fedele di una lunga tradizione che, a cominciare dai testi della letteratura omiletica e patristica per finire alle rappresentazioni antropomorfiche delle varie "Danze della morte", si sviluppò, fino alle soglie dell'umanesimo, in tutto il medioevo cristiano.
Ispirate a un avvenimento privato (la morte, avvenuta a Ocaña nel 1476, di Rodrigo Mantique, padre del poeta e come lui protagonista del tumultuoso periodo di passaggio dai particolarismi feudali alla nascente monarchia cattolica), le quaranta strofe che compongono il poemetto svolgono 'topoi', formule retoriche, metafore che, modificate e quasi irriconoscibili, riaffioreranno nella lirica dei secoli successivi. Il motivo della morte livellatrice (la cosiddetta "democrazia dell'oltretomba"), la sequela interrogativa che, forgiata sulla formula dell''"Ubi sunt?", assume in questo testo un ritmo cantabile e singolarmente dinamico, la metafora biblica della vita-fiume sono tutti ingredienti di quell''ars moriendi' che, unita a un'esasperata identificazione con il codice sociale, fu tratto caratteristico del medioevo ispanico.
Il metro scelto da Manrique è la cosiddetta "copla de pie quebrado", ovvero la doppia sestina che, forgiata su di un'alternanza di ottosillabi e tetrasillabi, riflette una misura ritmica sincopata e concettosa, ancora aliena da influssi e innovazioni rinascimentali (l'endecasillabo è, come si sa, verso di importazione italiana e si diffonderà in Spagna solo agli inizi del Cinquecento). Siamo quindi di fronte a un testo apparentemente scarno, in realtà fortemente connotato dal punto di vista retorico: un testo, potremmo dire, in cui la convenzionalità del genere si sposa ad una voluta attenzione per certi tratti espressivi del significante (il ritmo, la rima, le stesse allitterazioni foniche).
Questi aspetti formali sono resi dai curatori delle due edizioni in modo diverso, denunciando così una loro differente lettura e interpretazione dell'opera. La più visibile differenza riguarda lo schema metrico, rispettato da Caravaggi e solo in parte restituito da Allamprese, il quale spesso smorza la cadenzata alternanza di ottosillabi e tetrasillabi ricorrendo a versi di altra misura. Scelta che determina una diversa resa di traduzione, come nel caso della 'copla' III ("Nuestras vidas son lo r¡os / que Van a dar en el mar / que es el morir / all¡ Van los señor¡os / derechos a se acabar / e consumir...") ricreata da Caravaggi nel suo ritmo metaforico ("Son le nostre vite i fiumi / che vanno a dare nel mare / che è il morire, / là sboccano i poderosi / difilato a terminare / e a sparire") e rallentata in una sorta di spiegazione da Allamprese ("Le nostre vite sono i fiumi / che vanno a dare nel mare, / che è il morire / là vanno i potentati / dritti a consumarsi / e finire") oppure della sequela dell'"Ubi sunt?" (''ÈQué se hicieron las damas, / sus tocados y vestidos / sus olores?/ ÈQué se hicieron las llamas / de los fuegos encendidos / de amadores?") che Caravaggi interpreta con una fedeltà tutta melodica ("Che divennero le dame, / le acconciature e i vestiti / olezzanti? Che divennero le fiamme / degli ardori appassionati / degli amanti?") e Allamprese ricopia nei suoi più vischiosi tratti grammaticali ("Che ne è stato delle dame, / di acconciature e vestiti, / e dei loro profumi? Che ne è stato delle fiamme, / di quei fuochi accesi / dagli amanti?" ). Insomma, al di là delle singole scelte foniche e grammaticali (e si noti come la soppressione del possessivo a favore di un participio consenta al Caravaggi la ripresa della rima fra terzo e sesto verso), si ha l'impressione, nel primo caso, di una traduzione guidata da criteri filologici, attenta cioè alla fisionomia linguistica e musicale dell'opera e, nel secondo, di una parafrasi che risulta, a tratti, faticosa ed eccessivamente prosastica. Lo stesso titolo diversamente tradotto dai due curatori ("Elegia" per Caravaggi, "Stanze" per Allamprese), rivela una diversa maniera di intendere il testo, letto nel primo caso, e pur con le dovute concessioni all'originalità, come punto culminante di una cultura già codificata, e nel secondo come scarto modernizzante rispetto ad essa.
Resta da dire che, al di là dei diversi approcci ed esiti di traduzione, le due edizioni costituiscono un valido punto di riferimento per chiunque voglia rivisitare un testo base della letteratura tardomedievale, ripercorrerne il frammentario iter filologico (sull'ordine delle "Coplas" si discute a tutt'oggi), ricostruirne, sulla scorta di un apparato di note in ambedue i casi illuminante, gli archetipi linguistici e letterari.
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