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recensione di Turi, G., L'Indice 1992, n.11
Da alcuni anni l'attività editoriale di letterati e intellettuali. che nell'editoria non hanno il loro unico mestiere, conosce una discreta fortuna. Alle analisi su Prezzolini e le edizioni della "Voce" sui rapporti tra Croce e Laterza, sulla Sansoni di Gentile e la Nuova Italia di Codignola o sulle Edizioni futuriste di "Poesia" promosse da Marinetti, si sono aggiunte le indagini sull'attività editoriale di Pavese, sui giudizi riservati da Calvino a "I libri degli altri", mentre una sezione della raccolta di scritti di Cantimori "Politica e storia contemporanea" è stata riservata da Luisa Mangoni ai suoi pareri editoriali. Pavese, Calvino, Cantimori: tre einaudiani, a riprova della spiccata progettualità della casa editrice torinese affidata a un rapporto vitale con gli intellettuali.
La ricerca di un'ottica capace di rimettere sulle gambe una troppo nebulosa storia della cultura e degli intellettuali spiega l'interesse, o piuttosto, ancora, la curiosità che si fa strada anche in Italia per le vicende dell'editoria in epoca contemporanea. A questa lettura si prestava assai bene Vittorini, altro einaudiano anche se part time, e interprete quasi predestinato della sua tensione tra industria editoriale e produzione letteraria era Ferretti, che più di dieci anni fa aveva sondato a fondo il "mercato delle lettere".
Il fascino esercitato da Vittorini sui giovani e sugli intellettuali negli anni quaranta e cinquanta, la sua stessa perdurante fortuna, sono infatti legati, più che alla sua opera di scrittore, a quella "ininterrotta istanza di sperimentazione e di rinnovamento", a quella figura di autodidatta "sempre in formazione" e attento "all'oggi".(p. 166) che ne fanno - anche per la presentazione che egli ha dato di se- l 'emblema dell'intellettuale moderno, pronto a riconoscere come valori la città (e Milano come sua quintessenza), l'America, l'automobile, l'industria, l'industria culturale, che col suo "ottimismo industriale e scintoista" egli mitizza, senza mai metterne in discussione la logica produttiva (pp. 182-83). E l'editoria è il luogo di elezione dell'intellettuale Vittorini, il contesto dal quale non si può prescindere per comprendere l'artista.
A Ferretti l'attività editoriale di Vittorini non interessa infatti per meglio conoscere le case editrici Bompiani, Einaudi e Mondadori in cui lavorò, quanto per aggredire da una specifica angolatura il letterato e l'intellettuale, ripercorrendone tutta l'esperienza alla luce della sua collocazione all'interno dei meccanismi di produzione e di consumo della cultura. Forte dei sondaggi compiuti negli archivi degli editori e di singoli corrispondenti (è utilizzato anche l'epistolario in corso di pubblicazione presso Einaudi), e armato di una puntigliosità analitica talvolta fin troppo minuziosa, Ferretti esplora le varie facce dell'attività di quello che definisce l"'intellettuale-editore" Vittorini.
La gamma dei suoi interventi è amplissima: dallo sfruttamento del lavoro altrui (le traduzioni di Lucia Rodocanachi), alla cura spregiudicata di testi come i "Musulmani in Sicilia" di Michele Amari per Corona di Bompiani, dalla promozione e "falsificazione" della propria immagine che ha avuto il suo culmine in "Diario in pubblico" - dove Vittorini retrodata e accentua il suo antifascismo - alla direzione del "Politecnico", dei Gettoni e di "Menabò", con la costante attenzione al rapporto tra creazione culturale e sua divulgazione.
Insistendo sulla "sostanziale continuità" della ricerca culturale di Vittorini dagli articoli del "Bargello" a quelli del "Politecnico", fino al "Menabò", Ferretti sottolinea infatti la sua ricerca della "popolarità" e dell"'attualità", cioè. di un pubblico di massa e di un mercato, che non riesce tuttavia a trovare (sottostante i 22.000 lettori che "Il Politecnico" sembra aver raggiunto nel 1946). La sua proposta di una cultura che fosse al tempo stesso militante e formativa, divulgativa e sperimentale si risolve sempre, da Bompiani al "Politecnico" ai Gettoni, in un elitarismo più o meno consapevole, che non è solo suo. Uno dei risultati più interessanti dell'analisi dedicata al "Politecnico" è infatti il rilievo che, pur nel contrasto tra problematicità e schematismo, "la cultura vittoriniana e la politica togliattiana finiscono per proporre un modello intellettuale fondamentalmente non diverso", condividendo la stessa "finalizzazione politica della cultura" e lo stesso privilegiamento delle élite intellettuali (pp. 104-5); una notazione che fa giustizia di una troppo semplicistica distinzione tra politica e cultura anche se appare attenuata dal giudizio su Vittorini che si fa portatore nella rivista, di un compito propagandistico che gli è estraneo e gli viene assegnato dal partito (pp. 83-84).
L'esperienza editoriale si rivela una componente essenziale del Vittorini autore e intellettuale, del suo modo di lavorare in un equilibrio continuo, e contraddittorio, tra sperimentalismo e ricerca del pubblico tra autonomia e impegno. Ferretti lo documenta in modo convincente, ed ha anche buon gioco nel dimostrare riduttiva, per il suo protagonista, la definizione di 'organizzatore di cultura", incapace di cogliere la sua partecipazione diretta, dall'interno, ai processi di produzione e di mercato (p 55). Non è tuttavia convincente la qualifica da lui proposta, di "intellettuale-editore", che nel testo risulta intercambiabile con quella di "editore" tout court.
Non è una questione terminologica. Il titolo del volume non è una forzatura di tipo editoriale, simile a quelle operate da Vittorini e qui illustrate da Ferretti: l'autore ne ha rivendicato la corrispondenza con il ruolo specifico di Vittorini, che non appare infatti solo un 'editor', termine usato opportunamente da Carlo Fruttero per qualificare l'attività di Calvino testimoniata da "I libri degli altri" ma un vero editore cui mancano "soltanto le responsabilità e pratiche primariamente imprenditoriali" p. 34). Ma in quel "soltanto" c'è, in realtà, l'essenza dell'attività editoriale.
Se esiste un Vittorini che, come un Pavese o un Calvino, lavora all'interno dell'editoria, e che ad essa attribuisce grande importanza per la creazione e la divulgazione, non esiste invece un "editore Vittorini". Gli esempi addotti da Ferretti per cogliere l"'editore" non appaiono calzanti. La qualifica appare troppo estensiva, fino a comprendete tutte le prove dell'apprendistato caricandole di significato ("l'esperienza editoriale di Elio Vittorini si può far iniziare nel 1933, con la sua prima traduzione, per la quale egli si vale largamente e spregiudicatamente di Lucia Rodocanachi", si afferma ad esempio a p. 3). È, quindi, generica. Uno dei metri per valutare la sua "logica squisitamente editoriale" (p. 20) è la sua attenzione alla "produttività", e, in ultima analisi, la sua "spregiudicatezza" e "genialità": due termini che ricorrono assai spesso per qualificare la figura dell'intellettuale-editore ma che non sono sufficienti a renderne la specificità.
Ma a Vittorini manca la responsabilità primaria e specifica dell'editore: quella di compiere le scelte definitive. Ferretti stesso ce ne fornisce indirettamente le prove. La vicenda del "Gattopardo", sconsigliato a Einaudi perché lontano dalla sua idea di letteratura e presentato invece a Mondadori con un giudizio più aperto, che tiene conto degli interessi del pubblicò, testimonierebbe che Vittorini è "editore autentico", quando in realtà, la decisione di non pubblicarlo è di Arnoldo Mondadori (pp. 268-69). Ed è naturale che proprio nella grande casa editrice milanese la sua autonomia risulti più limitata: il giudizio sull'incarico di "valutare romanzi italiani e stranieri sulla base delle letture altrui, come un vero e proprio editore" (p. 197) non può non essere contraddetto quando si osserva che presso Mondadori "il suo parere è molto ascoltato ma non decisivo" (p. 264). Non è un caso che sia lo stesso Bompiani, l'editore vero, definito " l'editore-intellettuale", a rimproverare l'elitarismo di Vittorini inteso come minore attenzione per il mercato (p. 56); e nella progettazione dei Gettoni einaudiani Vittorini partecipa, pur da protagonista, a un processo decisionale collettivo dove predominano le figure dell'editore e del direttore editoriale Pavese (pp. 216-17).
La figura dell'intellettuale che opera nelle case editrici è sicuramente un aspetto rilevante della storia dell'editoria, che nella società di massa inaugurata dalla prima guerra mondiglie assume in Italia caratteri diversi da quelli ottocenteschi. Ma l'editore e l'editoria sono altra cosa. Non sembri troppo puntigliosa questa distinzione. Il titolo del saggio di Ferretti è accattivante, rischia di caricate Vittorini di un ruolo che non è suo proprio. Il caso di Vittorini non è quello di Prezzolini, di Codignola o di Gentile, cui non mancava la responsabilità imprenditoriale. Anche perché, quanto più l'editoria assume connotati industriali dagli anni trenta in avanti, la valorizzazione del ruolo degli intellettuali tende a scontrarsi con le logiche della produzione e del mercato.
L'obiettivo principale di Ferretti è un altro, ed è stato pienamente raggiunto. Ma questa precisazione si impone in una situazione come quella italiana, in cui le suggestioni provenienti dalla storia delle case editrici e degli intellettuali in esse operanti non si sono ancora tradotte in una riflessione approfondita e in una indagine articolata sui protagonisti e sui luoghi dell'editoria.
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