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Anno edizione: 2001
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Un vero Classico dello Spirito, un piccolo ma GRANDE gioiello che non può mancare nella biblioteca di coloro che hanno dato un orientamento in senso religioso alla propria vita. Il Dio che Buber tratteggia non è un astratto dio dei filosofi, un impassibile motore immobile, nemmeno è un dio junghiano,tutto immanente nella psiche dell'individuo, no: è il Dio PERSONA ( ed anche più-che-persona )che ci ha tramandato la grande tradizione ebraica prima e cristiana poi. Non è prioritario il "credere-che" bensì il "credere-in", cioè la FIDUCIA nel porsi innanzi a Colui che ci interpella in un rapporto dialogico, tra persone. Non dunque il dio oggi molto in voga, tutto interioristico, impassibile e presunto beatifico, che poi altro non sarebbe che l'esperienza di una certa interiorità qualora si sia liberata dai contenuti altalenanti della coscienza considerati perturbanti financo illusori. Pertanto non si ricerca qui la fusione mistica bensì la comunione del rapporto, che non annulla il soggetto umano. Godetevi questo libro e tutti gli altri di Buber; si arriverà alla consapevolezza di cosa sia realmente la religiosità o meglio la fede sana e matura rispetto ad una religiosità fanatica oggi tanto di moda e giustamente oggetto di aspre critiche.
stupendo libro, che mostra quanto l'ebraismo ha ancora da dire. Buber evidenzia come l'occidente soffre di "allergia all'Altro" e quindi rifiuta un vero dialogo. L'uomo che non vuole ascoltare dio, finisce con l'ascoltare solo se stesso, perde ogni fondamento. Certo, il Dio di Buber non è "l'essere onnipotente creatore e signore del cielo e della terra", è il fondamento dell'uomo e dei suoi valori; questo fondamento non può scomparire, ma l'uomo può non ascoltarlo più e perdere quindi la propria stessa essenza. L'altezza di questo pensiero lascia a distanza siderale le tesi nietzschiane della morte di Dio e ripropone una speranza di salvezza in un mondo che sembra volerla rifiutare.
Recensioni
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Il punto di partenza di questa serie di riflessioni di Martin Buber (1878-1965), uno dei massimi rappresentanti dell'ebraismo contemporaneo, sta nella celebre e terribile affermazione di Nietzsche della 'morte di Dio'. Partendo da essa, il filosofo tedesco-israeliano indaga sui rapporti tra filosofia e religione e tra religione e morale, ripercorrendo lo svolgimento del pensiero moderno da Crtesio a Kant, da Kierkegaarda a Sartre, da Heidegger a Carl Gustav Jung, alla ricerca di quel 'Dio vivente' che non può essere ucciso, ma che può invece tragicamente allontanarsi da noi che non siamo più in grado di ascoltarne la voce. Non la morte, dunque, ma l'eclissi di questo 'Dio dell'uomo', indivisibile dal suo genitivo, deve farci riflettere, perché se l'uomo, il proprietario di quel genitivo, lo rinnega, quel Dio «continuerà a vivere nella luce della sua eternità», mentre «noi invece, gli uccisori, rimaniamo nell'oscurità, in balìa delal morte».
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