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Se Guernica fosse stata realizzata nel 2019 si troverebbe in un Duty Free Art, imballata e legata come L'enigma di Isidore Ducasse in un luogo di stoccaggio esentasse nei pressi di qualche aeroporto internazionale. Invece Guernica fu realizzata da Picasso nel 1937 all'indomani del bombardamento della città spagnola durante quella guerra civile che stava facendo sentire al mondo i primi olezzi del disastro mondiale che si sarebbe verificato da lì a pochi anni. Allora Guernica fu esposta nel Padiglione Spagnolo dell'Esposizione Universale di Parigi sotto gli occhi di tutti, senza alcuno schermo o cassa a proteggerla.
«Mentre la biennale internazionale era la forma di arte attiva che corrispondeva all'idea di globalizzazione del tardo Novecento, lo stoccaggio duty free e i bunker di massima sicurezza a prova di bomba sono il suo equivalente nell'era della stasis globale e dei confini ridefiniti dalla NATO tramite recensioni pop up. Ma questo non è un esito scontato né inevitabile». Così scrive Hito Steyerl, autrice di Duty Free Art. L'arte nell'epoca della guerra civile planetaria (suo primo libro tradotto in italiano da Johan&Levi nel 2018).
Hito Steyerl è un'artista-teorica nata a Monaco nel 1966 che ha rappresentato la Germania alla 56a Biennale di Venezia e le cui opere sono visibili in Italia fino a fine giugno a Torino al Castello di Rivoli nella mostra The City of Broken Windows a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio. Nota soprattutto per la produzione di video, la sua ricerca indaga il rapporto tra arte, filosofia e politica; in questo testo specifico ad essere al centro della sua riflessione vi è l'arte e mercato dell'arte in un mondo globalizzato e, come indica il sottotitolo, sotto scacco di una guerra civile planetaria in cui il virtuale si mescola con il reale e viceversa. Attraverso una serie di acuti e sagaci capitoli, tratti per lo più da conferenze o articoli precedentemente pubblicati, l'autrice passa in rassegna alcuni nodi cruciali: la relazione che intercorre tra la creazione di un sentimento nazionale e la nascita dei musei; il passaggio dall'uomo produttore di immagini alle immagini produttrici di uomini o meglio di comportamenti; la questione non da poco dell'economia della presenza caratterizzata «da un mercato potenziato dalla tecnologia le cui merci sono attenzione, tempo e movimento»; il binomio rappresentazione-rappresentanza mostrando il progressivo svuotamento delle istituzioni democratiche; il fenomeno dei big data, ovvero l'ascesa al potere degli algoritmi nell'ambito dell'informazione («Mentre gli umani nutrono gli algoritmi con affetti, pensieri e socialità, gli algoritmi restituiscono loro linfa per quella che una volta veniva chiamata soggettività»).
Arrivati all'ultima pagina del libro si rimane un po' sgomenti per la chiarezza con la quale prende forma quel dark web in cui si è immersi, consapevoli o meno. Ma lo sgomento diventa consapevolezza di fronte alla constatazione di quanto il mondo dell'arte sia compiacente al sistema di mercato. Nel credere che tutto sia alla portata di tutti (basta pagare un biglietto o meglio ancora andare gratis online!), stanno aumentano i coni d'ombra. E in questi anfratti, sospesi nel tempo e nello spazio, si custodiscono opere d'arte come fossero lingotti d'oro, perché a quanto pare in un sistema di valori alquanto ballerino, l'investimento più sicuro e garantito giace proprio chiuso in casse per imballaggio. Così il modello istituzionale di “conservazione delle opere” pratica il restauro non più di quanto pratichi lo stoccaggio delle stesse in veri porti franchi in cui vige l'esenzione fiscale e una posizione di extraterritorialità strategica.
La storia della museologia e delle collezioni insegna che dal Settecento in poi, con l'avanzare delle idee illuministiche, si diffonde la consapevolezza che il patrimonio artistico di un Paese abbia un valore sociale legato al principio di “pubblica utilità”. Il British Museum e il Louvre, in particolare, nascono proprio dalla conversione di “proprietà” delle raccolte, dal privato al pubblico, secondo il principio di cui sopra, nell'idea che il patrimonio esposto servisse alla costruzione di un'identità nazionale. Per quanto pericoloso e critico sia parlare di un'identità nazionale foraggiata dalla cultura - perché inevitabilmente legata al potere di una certa classe - non si può dire che le cose siano andate altrimenti, soprattutto nel definire ciò che dava “valore” all'opera. Il paradosso in cui siamo immersi oggi sta allora nel ribaltamento degli assunti: quando l'ancien régime scricchiola – ma ancora di fatto il potere è detenuto da un'esigua minoranza aristocratico/alto-borghese – allora il concetto di “pubblica utilità” del patrimonio si diffonde, quando come oggi invece l'autorappresentazione ha raggiunto il suo picco e teoricamente avremmo tutti gli strumenti per raggiungere una consapevolezza sulle forme di controllo, il principio rappresentativo si svuota divenendo pura rappresentazione sempre e comunque di una élite. Conseguentemente il patrimonio culturale diviene un bene mobile alienato dalla quotidianità e, per molti versi, anche la conservazione dentro i contenitori per grandi eventi ne costituisce un'alienazione allo sguardo. Il valore delle opere non risiede così nel prodotto ma in un'astrazione costituita da relazioni che rappresentano modelli di interazione sociale e non la realtà sociale di per sé – rubando le parole alla Steyerl.
Potere, arte e cultura sono in combutta da secoli, e se oggi l'autrice tedesca rende noto lo scambio mail – ritrovato nei documenti resi pubblici da Wikileaks – tra il Presidente della Repubblica siriana Bashar Al-Assad e lo studio di Rem Koolhaas per la realizzazione di Al Badia Vision «un progetto d'azione e conservazione per una serie di soggetti cruciali per la regione» nel 2010, prima dello scoppio della Primavera Araba e della guerra civile, non dovremmo sorprenderci di come Dante collocasse tale Riginaldo, usuraio padovano, nel VII girone dell'Inferno. E non ci sorprendiamo perché quel Riginaldo che cerca inutilmente riparo da una pioggia di fuoco, non è altro che Riginaldo degli Scrovegni colui il quale aveva commissionato a Giotto una delle Cappelle più note della storia dell'arte con tanto di Giudizio Universale. Allora i soldi sporchi si ergevano a Dio per redimere l'anima, oggi il denaro si chiude nei depositi a garanzia di una conservazione imperitura incapace però di erigere una volta stellata.
Serena Carbone
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