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La voluminosa biografia intellettuale e umana dedicata alla figura di Primo Levi dalla scrittrice inglese Carole Angier richiama, fin dal titolo, il doppio binario concettuale di animus ac ratio che percorre e su cui si articola l'intera analisi elaborata in maniera convincente dall'autrice. Il "doppio legame" è anche il titolo dell'ultimo, incompiuto, romanzo scritto da Levi prima della sua tragica scomparsa, in cui la duplicità relazionale evoca una metafora mutuata dalla chimica e specificatamente dall'osservazione della formazione di catene molecolari che si formano con strutture differenti nella chimica organica e inorganica. Una duplicità che rinvia alla stessa biografia di Levi, sospesa fra chimica e scrittura, fra riserbo privato e testimonianza pubblica, fra l'ortodossia della ragione e l'eterodossia di un'interiorità mobile, fra lo studio rigoroso di tutta una vita della chimica inorganica e l'attrazione sotterranea e silente per la chimica organica.
Se questa metodica binaria è utile a conferire alla narrazione biografica una chiave di lettura coinvolgente e supportata da un'analisi accurata dell'intera produzione letteraria leviana, dalle numerose interviste rilasciate all'autrice da amici e collaboratori a lui vicini e dallo scavo scrupoloso delle fonti giornalistiche, Angier dà prova di non cadere nei consueti schematismi interpretativi di cui l'ermeneutica binaria è non priva di pericoli. Dal profilo dedicato all'infanzia e all'adolescenza vissute nella Torino degli anni venti e trenta, al ritratto dell'età matura comprensiva dell'esperienza antifascista prima e della prigionia nel campo di concentramento poi, fino all'esposizione della feconda attività del Levi scrittore e intellettuale pubblico degli anni settanta-ottanta, l'autrice tempera sapientemente i due livelli esegetici scelti per avvicinarsi alla decifrazione di un percorso esistenziale complesso e a tratti oscuro.
Sondare l'intimità di un uomo è sempre operazione ardua e delicata, soprattutto se si tratta di Primo Levi, che per ragioni dissimili può prestarsi a liquidatorie letture psicologiche di basso conio e a viete e abusate spiegazioni di natura psicoanalitica. Lontana da questi luoghi comuni, la descrizione del tormentato e mai risolto rapporto con la madre Rina - fil rouge dell'intero volume -, dell'affettività vissuta con forti resistenze e altrettante profonde incertezze, delle numerose relazioni simpatetiche intrattenute nell'arco della sua esistenza con gli amici a lui più vicini nonché con i maggiori intellettuali europei e americani, l'analisi introspettiva delle depressioni della giovinezza e dell'età adulta, si arricchiscono, di pagina in pagina, di preziosi e singolari elementi che donano al quadro tratteggiato non solo uno spessore maggiore di quanto non sarebbe stata una ricostruzione biografica incentrata unicamente sulla coté intellettuale di Levi, ma anche un raro afflato narrativo capace di gettare uno sguardo penetrante in zone critiche, esterne a rutilanti coni luminosi.
Viceversa, l'articolata narrazione dell'autrice ci restituisce un'immagine complessiva di un iter esistenziale in troppi casi letto e raccontato tramite i due totemici monomi Auschwitz/suicidio, polarità che a lungo non ha permesso ad altri spazi simbolici e reali di decollare. Angier concede il giusto peso all'identità di Levi sopravvissuto all'universo concentrazionario e, senza assolutizzarlo, lo inserisce in un flusso biografico comprensivo di altre identità altrettanto centrali e espressive: l'attaccamento viscerale alla propria città e alla casa natale di corso Re Umberto 75, l'intensa dedizione alla professione di chimico, l'impegno etico e politico con il quale concepì la propria attività di scrittore e di giornalista, l'amore per le gite sulle placide montagne piemontesi, queste sono le poliedriche identità che formano un affresco al contempo proteiforme e singolare, storico e individuale, che ben si attaglia a un'opera biografica che non restringa il proprio discorso a un aspetto specifico sacrificandone altri, ma che sappia interrogare con audacia disciplinata quelle aree tabuizzate che si sono ampliamente sedimentate nel silenzio che ha costantemente avvolto la figura materna e nel gesto estremo della sua morte.
La correlazione stabilita fra queste due estremità si determina nella parte finale del libro, in cui si percepisce, grazie a una prosa asciutta priva di grammatiche esornative, una drammaticità nuda e disperata che si raffigura facendo a meno di epidermici verdetti di colpevolezze, di un'ottusa ricerca di risposte giustificanti, di sguardi, in definitiva, ciechi, costringendoci al contrario a guardare non solo l'ultimo atto, ma l'intera vita di Primo Levi, con i suoi stessi occhi, occhi che cercavano e scrutavano il mondo con la consapevolezza non egotista di chi sa che la totalità non può essere trovata né razionalmente ricomposta.
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