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Questo libro tratta un grandioso paradosso e misconoscimento storico: siamo abituati a vedere la musica moderna nascere per i rami della musica tedesca e austriaca, fra Wagner e Schoenberg, con l’apporto folgorante del russo Strawinsky. Ma in realtà la poetica del moderno, in tutte le sue ramificazioni, si era già elaborata a Parigi, tra Saint-Saëns e Debussy, innanzitutto in seguito allo choc per la sconfitta militare francese del 1870, che obbligò a ripensare e rimescolare tutti i termini della creazione musicale.
Ora, «l’opera di quegli innovatori è singolarmente misconosciuta, anche in Francia, ove nessuno fino ad oggi ha pensato a narrarne la storia. E, quando la cultura francese impazzì per le idee introdotte da alcuni russi, Djagilev e Strawinsky in testa (ritorno all’ordine, neoclassicismo, musica “al quadrato”, culto del Settecento come categoria dello spirito, perennità della musica di corte), non sembrò nemmeno accorgersi che quella poetica, “di bellezza sconvolgente” (Boulez), aveva radici del tutto indigene. Le origini del Novecento musicale dipendono dunque dal gran secolo precedente, non solo, come è ormai ovvio, sul versante austriaco, ma anche su quello di Parigi e del pariginismo, fino ad oggi. Chi l’avesse mai detto, alle avanguardie storiche!» (Bortolotto). La via scelta da Bortolotto per raccontare questa aggrovigliata storia di forme in tutte le sue concatenazioni è la più ardua, ma anche quella che permette continue scoperte: sprofondare nei materiali, secondo un precetto benjaminiano, sorprendere il nuovo nel punto stesso dove si forma, nel respiro di una battuta, nell’incidersi subitaneo di una cifra stilistica. E insieme lasciando giocare tutte le risonanze e le rifrazioni che, nella Parigi che va dal Secondo Impero all’Esposizione Universale del 1900, dal duca di Morny ai mardis di Mallarmé, furono un abbacinante pulviscolo – e costituivano l’impalpabile fondale di quella che fu la capitale della décadence. Come già Fase seconda, questo libro rimarrà un passaggio obbligato per chi voglia capire la stupefacente vicenda del moderno in musica, che si aprì con la Romantik tedesca ed è tuttora aperta.
scheda di Cirignano, A., L'Indice 1993, n. 8
La battaglia è quella di Sedan (1870), vinta dai prussiani sui francesi. Il 'dopo' è un risentito, smanioso quarantennio musicale, quello di Fauré e Saint-Saens, Franck e Massenet, Bizet e Chabrier, e quant'altri divisero con loro il sogno di un patrio suolo culturale non altrettanto arrendevole nei confronti della pur ammirata potenza germanica. Anni di fiero sperimentalismo e di rimeditazione autoctona: con risultati che, quando sfuggono all'abisso del banale, sublimano nell'apparizione pura e semplice del nuovo. Da siffatto crogiolo - è la tesi del libro - non uscirono solo Debussy e Ravel: uscì il moderno, o meglio quella sua componente parodica, neoclassica, "al quadrato", così francese e così trascurata da una storiografia musicale a prevalente trazione austrotedesca. Per dimostrarlo Bortolotto rovescia sul lettore uragani di prove, spietate, ossessivamente analitiche, da restarne sbalorditi. Perlopiù le scova perquisendo repertori dimenticati (Alkan, Lekeu, Offenbach), ma non disdegna di estorcerle in controluce a pagine note, apparentemente pacifiche (vedi le conclusioni sul rapporto armonia-timbro in Bizet, da un intermezzo della "Carmen*). La sua eleganza d'argomentatore non si nega nessuna civetteria, nessuna prepotenza n‚ tecnicistica n‚ sintattica, pur di illuminare a ogni istante i dettagli mediante lo sfondo storico e viceversa. Fatica benissimo spesa. Strapazzati dal vulcanismo critico di Bortolotto abbiamo infine la sensazione colpevole di avere sempre pensato la culla del Novecento con un solo emisfero cerebrale. Non si saprebbe immaginare, per l'altro, una sveglia più imperiosamente efficace.
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