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Testo coinvolgente sull'atroce dittatura di Videla e in particolare sulle vittime in carcere. Da leggere tutto di un fiato.
NORMA VICTORIA BERTI, nata in Argentina, aveva 21 anni nel 1976 quando fu sequestrata e condotta in un centro clandestino di detenzione dove sparirono più di 2.500 persone. Da lì fu trasferita al penitenziario di Cordoba e poi al carcere di Villa Devoto a Buenos Aires. Fu messa in libertà alla fine del 1979 dopo tre anni di prigionia senza avere avuto mai alcun formale capo d’accusa. Nel 1980 dovette lasciare il paese per le minacce ricevute a causa dell’appoggio offerto alle organizzazioni dei familiari degli scomparsi. Da allora risiede in Italia. Nel 2002 e nel 2006 è stata testimone in due processi condotti a Roma verso un gruppo di militari argentini condannati in contumacia all’ergastolo per strage politica a danno di cittadini italiani. Questo libro è frutto della rielaborazione della sua Tesi di laurea, discussa presso l’Università degli Studi di Torino nel 1995 e vincitrice della sesta edizione del Premio “Franca Pieroni Bortolotti” promosso dalla Società Italiana delle Storiche.
Recensioni
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Foucault scriveva che la prigione è l'unico luogo in cui il potere si presenta nudo, nella sua espressione più feroce, senza mascherarsi, manifestando così la sua tirannia fino alle estreme conseguenze. L'autrice lo ricorda. Nelle testimonianze delle sue compagne di reclusione sopravvissute a quell'atroce esperienza nell'Argentina della giunta militare e disponibili a raccontarla emerge sia una preparazione politica e filosofica che percorre tutto il libro (e preesiste alla galera), sia il coprotagonista del volume: quel potere che ha scientificamente terrorizzato il Sudamerica degli anni Settanta e Ottanta. Spesso il potere colpisce il soggetto ritenuto più vulnerabile sul corpo del quale si accanisce per dimostrare la sua forza: la donna, vera protagonista del libro, che resiste con il suo corpo e la sua testa alla distruzione fisica, morale e psicologica, si trasfigura in un organismo unico e solidale, superando le divisioni e le appartenenze politiche attraverso la spontanea solidarietà, che nella raccolta di interviste diventa racconto corale di una scuola carceraria, difficile da intuire per chi non abbia provato quella forma di detenzione. Il libro aiuta a capire proprio la quotidiana resistenza di "donne scomode" con cui quel regime sarà infine costretto a confrontarsi: fuori, nelle strade, le chiamerà «pazze di Plaza de Mayo»; dentro, in carcere, le chiamerà «terroriste, sovversive irrecuperabili». Donne mai piegate dalla dittatura.
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