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Partiamo dal presupposto, personalissimo, che l’oggetto esibito (l’appartenenza femminile, il Kitsch, la lingua dei Padri) è parziale, e anzi è esibito in quanto parziale. L’esibizione (l’esibizionismo) nasconde qualcosa che è meglio non mostrare: e che è nei testi, evidentissimo, ma dal quale i due allegati teorici finali distolgono la luce. La cosa che non viene detta teoricamente è, in questo caso, la (possibile) Morte in/di una Sola, che sanguina: tutto ciò su cui l’Epitaffio finale medita, e che forse oltrepassa («Smetto di masturbarmi allo specchio del Padre», e la postilla a p. 77 parla di un romanzo in versi «[de]-fungente petizione finale a una rifondabile donnità-femminità»). La Donna stilnovistica e petrarchesca non è solo una belle dame (sans merci), ma soprattutto una Moritura, adorata post mortem: alla necessità della sua morte si accompagna il miracolo di poter, ancora, dire. Berisso non crede alla marginalità delle Postille e le vede come una cornice strutturante, un po’ sanguinetianamente. Pone quindi il libro sotto l’insegna del Kitsch e dell’Inautentico: ma un Cattivo Gusto mediato da istanze allegoriche, ecc. Il Kitsch del Dittatore è più che altro una catena di paronomasie sadomaso, come nel vicino Sesto Sebastian di Marco Simonelli. Vale a dire che l’ironia e l’autoironia sono un’epidermide goliardica e possono essere confuse con il corpo che rivestono (chi riconoscerebbe un corpo scorticato?): mentre il libro è pieno di riferimenti alla morte, al dolore e alle sfumature sanguigne del soggetto (in coessenzialità e contemporaneità, senza vera antitesi, con il piacere: tutto viene dalla stessa origine). Indicibili, se non poeticamente: perché la solitudine (o meglio l’asocialità) e la tristezza sono confessabili solo in una psicoterapia. Il lettore può, anzi dovrebbe, fare da solo questa ricerca nel corpo del libro; e potrebbe verificare anche le occorrenze di potente/impotente, che si riferiscono a un fare possibile o impossibile ai rispettivi soggetti.
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