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Centoquarantaquattro coppie di esametri a forte caratura sentenziosa, ripartite in quattro libri: questa la dimensione di una raccolta anonima trasmessa da un gran numero di manoscritti come Dicta Catonis ad filium o Libri Catonis, ma meglio conosciuta col titolo erasmiano di Disticha Catonis . Nulla sappiamo di certo sul tempo e sull'eventuale responsabile della compilazione, ma è ipotesi verisimile che l'insieme sia il risultato di più interventi a partire almeno dal III secolo d.C. La presenza del nome di Catone vuol essere tributo all'arcaismo di età imperiale e, insieme, garanzia di autorevolezza morale: il riferimento è a Marco Porcio Catone, il censore del 184 a.C., famoso per le sue battaglie contro il lusso e la corruzione dei costumi, noto anche come Catone il Vecchio, per distinguerlo dall'omonimo pronipote, Catone Uticense o Catone il Giovane, suicida nel 46 a.C. per sottrarsi al dominio di Cesare.
Destinata a notevole fortuna nella tradizione scolastica medioevale, la raccolta subisce via via ampliamenti e ritocchi, per conoscere poi numerose traduzioni nelle lingue romanze e precoce presenza tra le opere a stampa: ben otto edizioni prima di quella curata da Erasmo da Rotterdam a Lovanio nel 1514, che consegna il testo alla cultura europea.
Nei Disticha trovano formulazione sintetica i modelli comportamentali del cittadino romano che poeti e oratori, commediografi e moralisti hanno proposto nelle fasi storiche di ampliamento sociale della cittadinanza e di integrazione di nuovi gruppi etnici nella compagine statale romana. A ben vedere, si direbbe che, in sintonia con i processi storici che culminano con l'editto di Caracalla del 212 d.C. e comportano l'estensione del diritto di cittadinanza a tutti gli abitanti dell'impero, abbia preso corpo e voce un trattatello di etica in versi accessibile anche ai gruppi di recente romanizzazione. In questa sorta di manuale del buon cittadino si consegnano ai lettori i valori e gli esempi derivanti da una lunga tradizione, fatta risalire all'autorità di Catone il Vecchio, allo scopo di indurre comportamenti moralmente positivi ora in funzione civile, ora in chiave più strettamente privata. In sintesi, i consigli sentenziosi dell'operetta, redatti in lingua chiara e in struttura metrica costante, si presentano come inviti alla moderazione e alla sopportazione dei mali, a godere delle gioie del presente e a non valicare i limiti della condizione umana, a coltivare sempre le vere amicizie e a migliorare costantemente la propria cultura senza avere timore della morte.
Della raccolta compare oggi in libreria una scelta antologica, pari a circa un terzo del totale, che costituisce il primo volume della nuova collana "Filopógon" diretta da Giancarlo Pontiggia per la casa editrice milanese Medusa. Curatore è lo stesso direttore di collana, insegnante di italiano e latino in un liceo di Milano, poeta in proprio, redattore della Rivista "Poesia" e critico letterario per il quotidiano "Avvenire". Tutte queste competenze sono mobilitate e messe a frutto nell'impresa di avvicinare il lettore di oggi alla sapienza spicciola di ieri o dell'altro ieri; in particolare, se allo studioso del mondo classico spetta il compito di richiamare in nota le voci antiche che fanno da coro al testo e di fornire l'intelaiatura della traduzione, è merito del poeta contemporaneo la scelta di parole e ritmi in grado di assicurare piena leggibilità e comprensione alle schegge di sapere rappreso nel breve spazio dei distici.
Certo, la raccolta ha subito nel tempo, in virtù della sua fortuna e della sua natura di accumulo di massime decontestualizzate, integrazioni testuali e spinte interpretative attualizzanti, finendo per trovare non ostile accoglienza anche in ambito cristiano. Di quest'ultima osmosi qualche traccia traspare qua e là nella versione; per limitarci a un unico esempio significativo, si segnala che la resa di deus oscilla tra "Dio", "il dio" e "gli dei", a seconda che la massima sia irrimediabilmente legata al politeismo antico o possa assumere sembianze universali di divinità prossime al nostro presente. Così, il precetto di 2,2, mitte arcana dei ... inquirere , si rende "Non è bene indagare i misteri del dio"; in 4,38, là dove ci si lascia alle spalle la pratica dei sacrifici cruenti, ne credas gaudere deum cum caede litatur diventa "non c'è gioia negli dèi, / quando il sangue cola". Invece, in 2,16, Quid deus intendat, noli perquirere sorte , viene reso "Cosa Dio intenda, / non forzarlo con le sorti". Ancor più esplicita suona la resa in chiave cristiana del distico d'apertura, già oggetto di incaute dispute religiose tra Sei e Settecento. In 1,1 si legge: Si deus est animus nobis, ut carmina dicunt, / hic tibi praecipue sit pura mente colendus . L'interprete sa bene, come precisa in nota, che la teologia stoica sarebbe sufficiente a dar conto della formula iniziale, ma non resiste alla tentazione di inscrivere la massima nel nostro orizzonte mentale: "Se Dio è in noi, come dicono / i poeti, veneralo / sopra ogni altra cosa, con animo / puro". L'operazione comporta qualche torsione meta-storica: si perde la divinità dell'animo umano per far posto al dio di Agostino che abita in noi; è vero che poi l'animo si recupera, ammantato di purezza, per consacrarlo a venerazioni trascendenti, ma al prezzo di espungere la mente, alla cui purezza sarebbe invece affidato il compito - meno trascendente e più consono alla tradizione classica - di aver cura della parte divina dell'uomo.
Intendiamoci: come insegna Karl Popper, ogni buona traduzione è un'interpretazione, vuol essere insieme precisa e libera, perché obbliga alla convivenza forzata due mondi (due visioni del mondo) nati in contesti e linguaggi diversi. Insomma, ogni buona versione contiene non esigue particole di commento: è questo il luogo in cui si annida la cultura del traduttore e si misurano le compatibilità semantiche su cui fondare i passaggi da una lingua all'altra. Passaggi indenni o comunque accettabili, a patto che i giochi dello scambio verbale e del trasferimento dei significati non interrompano i rapporti tra originale e testo d'arrivo. Sono rapporti che Giancarlo Pontiggia non perde di vista, grazie anche al corredo di note (compresa quella finale che informa sulla raccolta e sugli intenti del traduttore) in cui interpretazione e commento si saldano nel munire la via della comprensione.
Posizioni un po' meno convincenti emergono dalla prefazione di Riccardo Emmolo: ditirambica apostrofe al "lettore curioso" per persuaderlo che il libro contiene "l'essenza della sapienza latina", per ricordarci che "non siamo immortali", che "la via della sapienza è troppo vasta per l'uomo", che "la sapienza viene da Dio e conduce a Lui", infine che "è gloria di Dio nascondere le cose, gloria dell'uomo indagarle", e via salmeggiando. Le accensioni ermeneutiche - si sa - possono sortire effetti imprevisti. In questo caso è da temere che il lettore curioso, invece di limitarsi a centellinare le piccole dosi sapienziali attribuite a Catone il Vecchio, si senta spinto verso i più intriganti e misteriosi Catoni, le cui ombre affollano un "giallo teologico" di recente fortuna, vale a dire L'ultimo Catone della giornalista iberica Matilde Asensi, comparso nel febbraio scorso in traduzione italiana per Sonzogno.
A dire il vero, l'ultimo Catone è il guardiano del purgatorio dantesco, figura a mezza via tra l'immagine autorevole del Vecchio Censore e lo spirito dell'Uticense morto per la libertà. Appunto la seconda cantica della Divina Commedia diventa il codice criptico su cui l'autrice spagnola costruisce un intrigo internazionale, grazie alla rivelazione di recondite dottrine celate "sotto 'l velame de li versi strani". Gli altri Catoni - ben 258 nel corso di diciassette secoli, capi di una fantomatica setta segreta di Guardiani della Croce - sono frutto del connubio tra fervida immaginazione e spericolato gigantismo ermeneutico applicato ai versi di Dante. Buona sorte vuole che, tra prove e viaggi iniziatici lungo le rotte dell'Europa mediterranea e del Medio Oriente, tra gusto delle rovine e utopie sotterranee, almeno un aspetto rinvii a problemi attuali: gli incontri ravvicinati tra una suora paleografa dalle poco raccomandabili ascendenze mafiose e un archeologo di mal certe origini ebraico-egiziane traducono nei termini di una maliziosa storia affettiva un corposo esempio di convivenza possibile tra mondi diversi.
Gian Franco Gianotti
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