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recensione di Mori, M., L'Indice 1997, n. 8
Il volume di Giovanni Felice Azzone costituisce un'ulteriore conferma della crescente diffusione che la bioetica sta avendo nel nostro paese e della sua intrinseca interdisciplinarità. Anche un medico come Azzone, che ha dato importanti contributi scientifici, si è ora dedicato all'esame di due dei più controversi e centrali problemi della bioetica: quello dell'inizio della vita umana e della sua fine. Il risultato è una disamina penetrante e informata, in cui Azzone mostra ampie conoscenze non solo tecniche e scientifiche, ma anche filosofiche, realizzando concretamente quella interdisciplinarità propria della bioetica.
Il volume merita di essere davvero letto con cura, dal momento che è uno dei pochi contributi esistenti in cui viene oculatamente chiarita la nozione di "emergenza", fondamentale in biologia e centrale per la tesi ormai ampiamente diffusa che l'embrione non è persona dal concepimento. Azzone osserva infatti che "la persona umana è il risultato di due emergenze distinte", per cui l'embrione certamente non è persona dal concepimento, ma si deve attendere una qualche fase successiva. Notevoli sono le pagine dedicate alle questioni di filosofia della mente e alla presentazione delle diverse prospettive in materia. Il volume è una sonora smentita della tesi spesso ripetuta secondo cui la scienza mostrerebbe che al concepimento si forma già un essere umano come uno di noi: le considerazioni empiriche e la ricchezza di conoscenze addotte da Azzone mostrano la totale inconsistenza di tale tesi, e già solo per questo il volume costituisce un significativo contributo al dibattito in corso e merita di essere attentamente considerato.
Più in generale è senza dubbio apprezzabile il programma di ricerca proposto da Azzone, che arricchisce il panorama italiano di una nuova prospettiva tesa a portare il dibattito bioetico dal terreno metafisico a quello empirico cercando "di collegare le asserzioni metafisiche connesse con il concetto di persona a significati empirici". In questo quadro, tuttavia, si ha l'impressione che con "metafisica" Azzone intenda la "metafisica "sostanzialista"", ossia quella concezione secondo cui esiste una speciale "sostanza" diversa dalla materia, e trascuri il fatto che con tale termine si può indicare anchela "metafisica "critica"", ossia quell'ambito del sapere che è al di là dell'esperienza in quanto ha il compito di ordinare l'esperienza stessa. Azzone ha perfettamente ragione a rifiutare la metafisica "sostanzialista", che oggi è difficilmente sostenibile e appare addirittura del tutto priva di senso. Ma se vale il secondo significato sopra indicato, allora diventa eccessivo (e forse superfluo) il tentativo di evitare la "metafisica" risolvendo ogni problema su base scientifica, non foss'altro perché l'interessante prospettiva di Azzone che sottolinea l'importanza dei processi evolutivi e della tendenza spontanea all'aumento di entropia non può che presupporre anch'essa una qualche metafisica "critica". Se quindi una metafisica critica è comunque ineliminabile, allora il problema diventa quello di avere una "corretta" e "adeguata" metafisica critica, ossia una prospettiva che consenta di ordinare e sistemare le varie parti del complesso mosaico considerato.
La proposta di Azzone sembra muoversi nella direzione giusta e certamente merita ulteriori approfondimenti. C'è tuttavia almeno un punto in cui mi sembra che richieda qualche precisazione.A p. 38 Azzone prende le distanze dall'idea dei positivisti per i quali la conoscenza del mondo esterno è "acquisibile soltanto mediante l'esperienza". Tale idea, secondo Azzone "è valida soltanto se si considera lo sviluppo ontogenetico dall'uovo fertilizzato all'individuo adulto. Ma se si considera anche lo sviluppo filogenetico del cervello, allora la spiegazione del meccanismo di apprendimento richiede l'esistenza in ogni individuo di una conoscenza innata ("a priori") precedente l'esperienza personale e indipendente da essa. Questa conoscenza si sviluppa mediante il meccanismo della selezione naturale e viene tramandata di generazione in generazione mediante il programma genetico. La conoscenza "a priori" precede l'esperienza ed è il risultato del fatto che alcune nostre funzioni mentali, tra cui appunto quelle corrispondenti ai concetti di spazio, tempo, causalità e le radici profonde del linguaggio, sono state selezionate a causa del vantaggio che trasmettevano ai loro possessori (...) Esistono quindi due conoscenze, una innata, o conoscenza "a priori", indipendente dalla personale esperienza e trasmessa con l'eredità genetica, e una acquisita invece durante la vita in conseguenza di esperienze sensibili".
Ho riportato questo lungo passo perché devo confessare di far fatica a dare un qualche senso (non solo un senso "preciso") all'idea di una "conoscenza" indipendente da un soggetto conoscente. Può darsi che in questo io sia eccessivamente condizionato da un retaggio empirista (o positivista). Tuttavia, posso concepire (e forse condividere) l'idea che ci siano delle predisposizioni a ordinare i dati in un certo modo piuttosto che in un altro e che queste siano trasmesse geneticamente, ma mi pare eccessivo dire che esse sono già conoscenza o una forma di conoscenza che è precedente l'esperienza personale e indipendente da essa. Insomma, per me è inconcepibile parlare di "conoscenza" indipendentemente da un soggetto conoscente. Forse è solo un problema linguistico relativo ai termini usati, facilmente risolvibile attraverso una diversa formulazione della tesi. Ma in questo caso una diversa formulazione non è irrilevante sul piano pratico perché - se davvero ci fosse una conoscenza a priori trasmessa geneticamente - questo dato non sarebbe trascurabile dal punto di vista della tutela dovuta al processo genetico in quanto tale.
Mi pare che almeno su questo punto la prospettiva "metafisica (critica)" di Azzone debba essere chiarita e precisata. Qualche altra precisazione, forse, andrebbe fatta anche circa l'idea di "sacralità della vita", che probabilmente non comporta soltanto l'attribuzione di valore intrinseco al processo vitale umano, ma di un valore assoluto o supremo. C'è poi da dire che l'elettroencefalogramma piatto non è il criterio principale per la diagnosi della morte corticale, la quale oggi viene diagnosticata principalmente attraverso l'osservazione clinica attenta e prolungata. Ancora, molto auspicabile sarebbe stata una trattazione più ampia delle questioni generali circa l'etica medica e l'allocazione delle risorse, cui Azzone dedica i capitoli finali del volume. Infine, una parola va detta circa la netta e più volte ricorrente contrapposizione tra "i cattolici" e "i laici" tracciata da Azzone: anch'io credo che "alla fine" si debba operare una distinzione in questo senso (soprattutto nel nostro paese), ma credo anche che prima di arrivarci sia necessaria cautela e vadano attentamente distinte le varie posizioni - spesso significativamente diverse - presenti entro le due prospettive. Soprattutto l'arcipelago dei "laici" è estremamente variegato e conta innumerevoli posizioni: il volume di Azzone arricchisce il quadro di una nuova e interessante prospettiva molto attenta ai dati scientifici, ed è caldamente raccomandabile anche perché mette a disposizione nuovi dati e argomenti degni di ulteriore approfondimento.
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