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Sarò volutamente superficiale, poco fine, filologo, poco garboliato o garbato: questo libro è un insulto. Uno schiaffo, un pugno allo stomaco. Si compone di due parti, una più spregevole del'altra. Nella prima Napoleone, lo straniero, viene presentato come un mostro. Lo era, ma aveva qualche attenuante, ad esempio i mostri, peggiori, nati e partoriti dalla Rivoluzione che erano stati, in molti casi, più sanguinosi e più stupidi di lui. La seconda è un'apoteosi del leccaculismo, sotto ogni aspetto. Di questo autore sempre più apprezzo il solo filetto, al sangue.
Recensioni
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recensioni di Fiorentino, F. L'Indice del 2000, n. 06
Di Buonaparte e dei Borboni, proposto da Cesare Garboli con lo scrupolo filologico che gli è consueto, è un testo che ha patito di una pessima fama. Le simpatie bonapartiste, sempre vive nell'opinione e nella storiografia francese, hanno ispirato una sua condanna come libello infame: come una sorta di insulto lanciato verso il proprio nemico da altri sconfitto. Neppure era bastata la testimonianza dello stesso Napoleone, il quale riconosceva a chi lo aveva criticato quando era potente il diritto di attaccarlo anche nella disgrazia. A questa riprovazione infatti non era estraneo il desiderio di nuocere alla reputazione del suo autore, sempre esigentissimo in fatto di nobiltà morale, come peraltro testimoniano inequivocabilmente differenti decisivi momenti della sua vita. Se invece si considera il contesto politico di questo pamphlet, scritto nei giorni terribili dell'avanzata degli Alleati sul suolo francese, e la cui pubblicazione è annunziata il giorno del loro ingresso a Parigi, esso appare come un altro tassello al colossale monumento di Chateaubriand: non solo alla sua incontestabile magnificenza letteraria ma anche alla sua, volentieri contestata, lucidità politica.
Gli Alleati avevano passato il Reno l'11 dicembre 1813. Ma la loro non fu una passeggiata. Lo stesso zar ammise che la guerriglia nei Vosgi gli era costata 3.000 uomini. Meglio andò in Aquitania agli inglesi di Wellington accolti come liberatori. Nel sud e nell'ovest della Francia riemergevano sentimenti monarchici a lungo latenti (sebbene spesso si ignorasse persino chi fossero i Borboni ancora vivi). A Parigi la guardia nazionale, pronta a passare dall'altra parte assieme ai prefetti Pasquier e Chabrol, si preoccupava soprattutto di tenere a freno il popolo di sentimenti bonapartisti. Intanto Bonaparte, circondato da quarantamila veterani, da Fontainbleau cercava di trattare. Non avrebbe mai accettato mutilazioni territoriali della Francia, ma era pronto ad abdicare per lasciare il trono a suo figlio, per il quale contava che potesse giovare la parentela con l'Imperatore d'Austria. Sua madre, la sbiadita Maria Luisa, avrebbe potuto infatti ottenere la reggenza. Anche lo zar non nutriva simpatia né stima per i sovrani spodestati, ma i suoi favori andavano al generale Bernadotte, che, diventato re di Svezia grazie alle armi francesi, si era poi unito ai nemici dell'Imperatore. Solo gli inglesi preferivano il ritorno dei Borboni: però, a parte Wellington, con poca risolutezza.
Il 31 marzo 1814 le truppe alleate guidate dallo zar Alessandro entrarono in Parigi. Il 6 aprile a Fontainebleau Napoleone abdicava. Quello stesso giorno il Senato, molto conservatore, presentava un appello a Luigi XVIII. Ma la questione era tutt'altro che risolta. Gli Alleati, nell'incertezza, avevano infatti deciso di sondare l'opinione dei francesi. E una parte importante della classe dirigente - tutti coloro che avevano fatto fortuna in epoca rivoluzionaria e napoleonica - era spaventata dal ritorno dei Borboni. Chateaubriand con il suo pamphlet si rivolgeva appunto a costoro nel tentativo di convincerli che la restaurazione dei legittimi sovrani era nei loro interessi. Per riuscirci doveva innanzi tutto mostrare fino a che punto Bonaparte era stato nefasto per la nazione. Bonaparte aveva spopolato il paese mandando persino i ragazzi a combattere; i Borboni vogliono la pace per tutelare la vita dei loro sudditi. Bonaparte aveva imposto tasse altissime per finanziare la guerra; i Borboni avrebbero difeso la prosperità del paese come quella di un bene proprio. Bonaparte con l'arbitrio del despota si era macchiato di crimini odiosi come l'assassinio del duca d'Enghien; i Borboni avrebbero rispettato la legalità perché, in quanto sovrani legittimi, tengono all'osservanza della legge. Bonaparte aveva soffocato la libertà; i Borboni l'avrebbero ristabilita.
Da grande polemista politico egli riesce a ribaltare anche l'argomentazione principale degli avversari: i Borboni tornano a regnare grazie alla vittoria di eserciti stranieri sull'armata francese. Lo straniero per eccellenza è appunto Bonaparte, il corso che grazie ai turbamenti rivoluzionari si è messo a capo della Francia e ha profittato di lei per innalzare il suo trono. È lui il corpo estraneo che finalmente può essere eliminato. Il ritorno della dinastia equivale dunque a restaurare la pace, la libertà, la prosperità, la legge e il primato degli interessi nazionali. Tutte queste promesse tuttavia non sarebbero state sufficienti per coloro che si erano arricchiti con la vendita dei beni nazionali se non si fossero poggiate su un'ulteriore rassicurazione capitale: "il cuore di un figlio di San Luigi è un tesoro inesauribile di misericordia". Niente vendette o ritorsioni. Si capisce perché Luigi XVIII, che pure non prediligeva Chateaubriand, ammise che quel pamphlet dall'immenso successo gli valse più di una battaglia vinta. Gli argomenti di propaganda finiscono però per costituire un programma politico lungimirante di pacificazione e di monarchia costituzionale che cerca di impegnare anche coloro in nome dei quali è formulato.
E il significato politico del volumetto non è relativo soltanto alle circostanze in cui apparve. Descrivendo Bonaparte, come osserva con acutezza Garboli, "Chateaubriand ci mette sotto gli occhi un identikit, e nel suo schizzo si vedono formarsi distintamente i lineamenti di tutti i dittatori che noi abbiamo visto e vediamo ancora prosperare nel nostro secolo". Egli infatti riesce a cogliere perfettamente i tratti dell'avventuriero e del militarista, entrambi inevitabili nel despota moderno.
Questo nemico della Rivoluzione eredita tuttavia dalla Rivoluzione la forma dell'eloquenza politica moderna. Il suo pamphlet è immensamente lontano per lo stile da testi polemici e di propaganda prerivoluzionari, come quelli di Pascal o di Voltaire. Non c'è ironia, non si raccontano aneddoti divertenti, soprattutto non si disseminano dubbi né perplessità. Il lettore è posto sempre di fronte a una scelta di campo che viene presentata come estrema, nella quale il bene si contrappone risolutamente al male. Legittima quando si affrontano libertà e tirannia, pace e guerra, legge e arbitrio, tale radicalizzazione contiene però fuori di quei casi un germe che può guastare uno dei principi fondanti della libertà e della democrazia: la demonizzazione dell'avversario, la sua delegittimazione come altro rispetto al corpo della nazione, come straniero. Così, nei quasi due secoli che ci dividono dal testo, la stessa retorica sarà impiegata da altri per fini politicamente opposti, illiberali e spesso ignobili. La modernità non ha veri antidoti contro la logica del dispotismo.
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