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Il film è un noir perfetto, meritava un'edizione migliore.
Regista letterato nonché melomane di vaglia (si osservi l’uso raffinatissimo che della musica viene fatto all’interno del film), relegato ai margini dello Studio System da un produttore rancoroso, in meno di una settimana e con un budget di 20.000 dollari scarsi (il costo medio di una pellicola si aggirava intorno agli 800.000 dollari!), Ulmer fa a pezzi il sogno americano decostruendone, uno per uno, tutti gli stereotipi, a cominciare dal mito del successo “improvviso” veicolato dalla stessa industria dell’intrattenimento, quell’overnight success che, potendo arridere a chiunque in qualunque momento, invita lo spettatore a fare della scommessa il principio informatore della sua intera esistenza, cioè ad affidare il proprio futuro non a un progetto di vita razionale ma a un mero colpo di fortuna (magari venendo “scoperti” allo Schwab’s Drugstore di Hollywood, come la leggenda vuole capitasse a Lana Turner). È significativo che il protagonista Tom Neal concluda la sua parabola proprio a Reno, all’epoca la capitale del gioco d’azzardo. Ma è chiaro che promesse di questo genere sono fatte per essere disattese. Fin dalle prime scene, la famosa mobilità americana assume i caratteri dello sradicamento e della deriva esistenziale, ogni “sano” individualismo si rivela alienazione e solitudine senza rimedio. Ne viene fuori un film curiosamente colto e a suo modo financo sofisticato, che gli evidenti limiti produttivi non riescono a penalizzare davvero, finendo anzi per esaltarne le tonalità più cupe e disperate; le stesse che ne fanno (secondo me a buon diritto) un testo canonico della cinematografia noir.
Un film girato a basso costo con attori sconosciuti diventato un classico del cinema noir. Una parabola sul destino, col protagonista che entra in una spirale di angoscia e disperazione senza via d'uscita.
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