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Anno edizione: 2012
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recensione di Deidier, R., L'Indice 1997, n. 5
Di fronte a un'affermazione quale "la forma critica, o saggistica, può conservare tutta la sua obliquità", il lettore postmoderno, ben avvezzo al "bricolage" teorico, alla contaminazione delle diverse materie del pensiero, conserva la sua indifferenza, come verso una scontata tautologia. In realtà "La democrazia magica", l'ultima raccolta di saggi di Franco Cordelli sul tema del romanzo, porta in sé l'obliquità non come tesi, ma come natura stessa del procedere ragionativo e quindi dello stile che lo esprime. In altri termini, Cordelli ha trasformato (nel senso di dare una forma "altra") la sua "ossessione del romanzo" in una riflessione che ha ben poco dello stile saggistico propriamente inteso, pur in tutta la sua obliquità. L'impressione è che "La democrazia magica" sia il risultato di un lungo colloquio con se stessi (fin qui potremmo ancora rientrare nella forma saggistica), ma avviato non per prendere coscienza di qualche "verità", quanto per dare a un "chiodo" antico una forma, una riconoscibilità. Eppure, tale è il combattimento con questa materia che la forma sfugge (ma questo è un carattere della scrittura di Cordelli), almeno nella compiutezza che in altri tempi avremmo preteso: nel pensiero si sta consumando, suo malgrado, un dramma che imprime a questo libro un andamento ellittico, dove qualcosa viene continuamente sottratto alla coscienza del lettore. Ma l'ellissi non è forse il risultato di un pathos accelerato, di una tensione fortissima? Di questo, il lettore e scrittore Cordelli sembra ben consapevole.
Non è facile addentrarsi in un percorso così sfuggente a ogni sistematicità, lungo il quale si confondono e sovrappongono le categorie della prosa narrativa. L'obliquità invocata nella prefazione, ad apertura di libro, segna un cammino scandito in momenti diversi, che si snoda con passione, attraverso autori e luoghi letterari molto lontani tra loro, nello spazio come nel tempo. Ma non sono anche queste, con sicurezza ormai, categorie relative, oblique, destinate tutto sommato ad annullarsi in quella coscienza spirituale più vasta, universale, che dovrebbe essere la mente dell'artista (narratore, romanziere o scrittore che sia)? Infatti Cordelli non disegna una geografia letteraria, né una storia possibile: è piuttosto il piano della sostanza a interessarlo, a farlo precipitare verso di sé, dentro di sé, come una sorta di discesa alle Madri a cui non è dato sottrarsi. Oltre la madre "narratologica" (oltre, cioè, l'organizzazione di quella sostanza, oltre la prospettiva che la focalizza) stanno le Madri del mito e la tentazione di affrontarle; di porsi, da parte dell'artista, in una tensione agonistica per portare allo scoperto quel che c'è "dietro" la verità, dietro ogni verità.
Cordelli accetta di misurarsi con le opere direttamente nella dimensione del giudizio; non le illustra, non le dispiega, riflettendo in questo la sua vocazione a un discorso antinarrativo piuttosto che al "racconto di storie" (definizione, questa, fin troppo ripresa in questo primo scorcio degli anni novanta, per non destare in fondo qualche sospetto). La "nomenclatura" che propone nel sottotitolo ("il narratore, il romanziere, lo scrittore" appunto) gli appare in una necessità imprescindibile, ma anche impersonale: si chiede "perché "si sia dovuti" giungere" a essa. La risposta viene data poco oltre: descrivendo (ovvero legittimando) una "qualunque forma dello spirito" non meccanicamente, ma all'interno del "nesso dialettico tra quella e le altre", si realizza la magia della padronanza di quella stessa forma da parte di chi la produce come "grande", unica e riconoscibile. Una forma che non nasce dal distacco, dall'antitesi, ma si costituisce in quel processo dialettico, che resta poi il vero movimento della tradizione, di qualunque specie essa sia.
Cordelli rivendica una "pari opportunità" per ogni forma e, all'interno di ciascuna forma, una democrazia per tutti, personaggi e lettori. La magia, questa volta sul piano personale, sembra dunque coincidere con la felicità di una liberazione, quasi una sorta di agnizione a lungo e faticosamente conquistata: un'epifania, una luce che ancora consenta di lavorare in quella libertà. Più semplicemente un'idea per la quale è possibile, dopo la dolorosa "quest", disporsi in un angolo diverso (in questo senso la rivelazione di Cordelli risponde anche a un atto di volontà) per giudicare il nostro spazio letterario secondo il metro di quella stessa libertà. In quello spazio incontriamo così il narratore, per il quale prevale l'immagine (ovvero la "figura", proprio come poteva intenderla Auerbach); il romanziere, che si affida al predominio dell'idea e bada al risultato (predilige la rapidità, l'azione); infine lo scrittore, l'"eclettico moderno" per il quale immagine e idea rispondono insieme alla rappresentazione del mondo, al Romanzo che ci parla dalla regione mitica delle Madri.
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