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Anno edizione: 2019
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Plumbeo, pesante come ghisa - indigeribile, ecco, questo è l'aggettivo giusto per definirlo. Alcune pagine sollecitano formicolii in testa per poterle capire almeno sufficientemente con una concentrazione alta. Potrebbero essere ben accette se articolate da un L. Klages, L. Binswanger, F. Schelling un secolo fa. Nel 2019 non vedo lo scopo di queste contorsioni logiche gratuite in un libro richiedente una Tavor prima di leggerlo, forse anche prima di scriverlo. Ricordatevi che la leggibilità, lo stile lineare, la semplicità nell'esporre concetti articolati è una cortesia rivolta ai lettori se decidete di pubblicare; se si scrive per se stessi allora le cose cambiamo.
è sufficiente un solo motto: pesssimo
Con molta astuzia da teatrante guitto scrive Cacciari a pag.449: "Uno dei miei rimpianti più grandi,lei lo sa,è di non aver incontrato Giorgio Colli." rivolto a un corrispondente epistolare immaginario,quindi il tutto è FALSO,perchè NON sta elaborando un racconto narrativo,ma assume la veste di un Platone del Vita-Salute San Raffaele. argos (Profeta del Rogo della FENICE di Venezia) Domenica,28 Agosto 2016
Recensioni
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V'è un'espressione che caratterizza il gergo filosofico: la "cosa stessa". Rintracciabile in Platone e in Aristotele, ha raggiunto il suo massimo uso nella lingua tedesca (die Sache selbst), al punto che Hegel vi ha dedicato un capitolo della Fenomenologia dello spirito, e Heidegger l'ha rilanciata come locuzione di ciò che è massimamente degno d'essere pensato. Ma sotto questo nome - dal greco pragma e dal latino res, causa, affare - si celano i tanti oggetti della storia della filosofia: l'Idea, la Sostanza, lo Spirito, l'Essere.
Richiamandosi a questa tradizione, ecco apparire il libro di Massimo Cacciari, Della cosa ultima. Nell'opera precedente, Dell'Inizio, Cacciari - attraverso il confronto con il neoplatonismo, Schelling e Hegel - aveva determinato come cosa del pensiero l'Inizio, intendendo con questa categoria la possibilità di essere e non essere di ogni ente: l'Inizio, per usare una metafora, è ciò che sta prima della creazione. Ora la domanda diventa: come si rapporta l'uomo all'Inizio? Quali i segni del suo stare al fondo di ogni evento?
Di qui l'andamento stilistico del nuovo testo. Innanzitutto - in forma di dialogo tra l'autore, un amico scettico e un teologo - abbiamo una sorta di discorso sui principi primi nella tradizione occidentale (una protologia): da Anassimandro a Aristotele, fino a Cusano, Bruno, Leopardi; attraverso le riflessioni su un concetto problematico come quello di Infinito, si domanda Cacciari, non troviamo i modi, pur diversi, con i quali è stato pensato l'Inizio? L'Inizio, in quanto Onni-compossibile, è ciò che viene, logicamente, prima della stessa nozione di Dio. Un concetto vertiginoso, abissale. Ma il mistero dell'esistenza di ogni singola cosa non chiama in causa appunto il suo "da dove"? E nell'uomo, in quanto ente nel quale l'esistenza si fa domanda sul proprio senso, come si rifrange la questione dell'Inizio?
È il tema della seconda parte del libro, in forma di lettere scritte ai due amici, ove Cacciari ripensa la dottrina degli "esistenziali", delle strutture fondamentali dell'esistenza. La prima di queste strutture è l'identità del soggetto, che già nella sentenza dell'oracolo di Delfi aveva la forma di un enigma: "conosci te stesso". Un compito necessario, ma impossibile: scrutato fino in fondo, ogni soggetto è straniero a se stesso: l'altro mi abita, fa parte di me, ma, insieme, è incatturabile. E cos'è l'esistenza se non un dono che accade, senza un perché? Si badi, definire l'esistenza un dono significa fare proprio un tema biblico, portandolo alle estreme conseguenze teoretiche. La possibilità del venire all'essere di una cosa è certo un dono, una grazia. Con una differenza rispetto alla tradizione ebraico-cristiana: in questa, il dono è l'atto d'amore di un Dio che intenzionalmente decide; per Cacciari, il dono è l'epifania dell'apparire nel mondo nella sua assoluta gratuità (charis), senza alcun scopo. Una gratuità che implica che ogni accadere non sia necessario, né garantito: il suo Inizio è possibilità, nel contempo, di essere e non essere. Questo è l'a-teismo filosofico di Cacciari: non negare Dio, ma andare alle sue radici, là dove anche Dio è uno degli enti possibili. Un ateismo che fa propri i contenuti di origine biblica, e li conduce a un esito inaspettato, fino al paradosso. Se il messaggio di Cristo - lÆagape come svuotamento di sé - è un messaggio di libertà, ebbene, lo stesso Inizio è Libertà, ma una libertà che implica anche la sua impossibilità, In-differenza d'essere e non essere.
Qui sta il mistero della cosa stessa, che la tradizione neoplatonica e mistica ha affrontato sotto il nome del "toccare il Dio", e sul quale si sofferma la terza parte del libro, dedicata agli eschata, alle cose teologicamente ultime. Toccare il Dio non significa appropriarsi della sua essenza, ma capacità di intuire nel volto del singolo il mistero stesso dell'Inizio. Come se solo accudendo l'aspetto creaturale, finito, dell'esistenza si potesse intravedere il suo significato ultimo, escatologico. Un mistero che riluce nelle opere d'arte - ove la singolarità della cosa appare come immortale proprio perché epifania della nascita di un mondo. Nel testo vi sono pagine intense sull'icona, la preghiera, il mistico, la profezia, il male, il paradiso dantesco. Pagine che rappresentano una sfida tanto per il non credente, quanto per il credente. Per il primo, è un invito a dimettere un'immagine strumentale o edificante della filosofia: pensare significa, secondo Cacciari, far proprie le domande della teologia portandole oltre se stesse, ove il vero può non consolare. Per il secondo, assistiamo a un sfida al cristianesimo sul suo stesso terreno: se ne ammette la verità, ma da un punto di vista che si pone là dove la rivelazione cristiana risulta una delle forme di manifestazione dell'Inizio. Per non dire del dialogo serrato, che attraversa tutto il libro, con Emanuele Severino: l'Inizio in quanto In-differente, nome di un possibile non necessario, ove si equivalgono gli opposti, non è l'esatto contrario della "necessità dell'essere" di cui parla Severino? Quasi che l'argomentazione di Cacciari, ritrovando nell'aporia la cifra del vero, disegnasse una figura di dialettica (la diaporetica) che si sottrae all'aut-aut della confutazione (elenchos) severiniana.
In fondo, possiamo sorprendere in queste pagine - che aspirano a essere insieme una protologia, una dottrina degli esistenziali e una escatologia - il tentativo di una nuova definizione di metafisica: va al di là delle apparenze (ta meta ta physika) solo lo sguardo che sa indugiare sulla singola cosa - anche la più negletta -, cercando di carpirne la meraviglia del suo apparire, come fosse lÆanalogon dello stesso Inizio. Una tensione analogica presente in ogni capitolo, e che avrebbe meritato una disamina a sé. Quale analogia tra gli enti e l'Inizio? Un'analogia di partecipazione? Con il rischio di far propria una concezione univoca dell'essere, propria della tradizione neoplatonica? Ma tutto lo sforzo di Cacciari, pur con tonalità neoplatoniche, non va nella direzione esattamente opposta, di una giustificazione dei "molti" nella loro singolarità in quanto icone dell'Inizio? In tal senso, si può svelare il significato etico del titolo: ogni cosa è l'ultima, proprio perché - in quanto dono, pura gratuità - è degna d'esistere nella sua contingenza.
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