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recensione di Puccini, D., L'Indice 1992, n. 5
La prima cosa osservare a proposito di questo libro di Buñuel è quanto sia stato giusto e azzeccato ristamparlo, visto che forse non era stato apprezzato abbastanza al suo primo apparire nelle librerie italiane, per destinarlo così a quel tipo di lettura che io chiamerei intramontabile, com'è l'opera più volte replicata di quel regista. Sia lode quindi alla prelibata collana "Saggi e documenti del Novecento " della editrice SE, per il rilancio di questa felicissima opera autobiografica.
Ma subito dopo al recensore viene fatto di dichiarare in cuor suo e agli altri: "semiologi, spiegatemi, per favore, quanto sto ora per dire e che mi viene spontaneo notare sulla scrittura del libro". Al suo inizio infatti appare un'avvertenza dello stesso autore, che ci rende perplessi: "Non sono uomo di penna. Dopo lunghe conversazioni, Jean-Claude Carrière, fedele a tutto quello che gli ho detto, mi ha aiutato a scrivere questo libro". Non si riesce a capire, da queste parole, se Buñuel abbia raccontato estesamente al suo amico francese, suo collaboratore in tanti film, la propria vita e poi Carrière, a casa sua, l'abbia trascritta un po' per conto suo; oppure se il famoso regista spagnolo, nel suo francese che si può anche immaginare perfetto (ma comunque sempre una lingua acquisita), glielo abbia via via dettato; o che le due cose si siano mescolate, con correzioni apportate sul testo, quale scaturiva dalle conversazioni. Se poi a questo si aggiunge che dal francese il libro è stato tradotto (ottimamente) in italiano, i travasi e i filtri con cui il testo arriva fino a noi è davvero un rebus linguistico e letterario. Eppure - ecco il punto della mia perplessità - conosco pochi libri meglio "scritti" di questo di Buñuel: vivace, pungente, personalissimo, pieno di osservazioni, aneddoti, episodi e notizie che la scrittura riproduce in modo impeccabile e che sono davvero in grado di coinvolgere qualsiasi interesse e qualsiasi lettore: non soltanto, insomma, l'attenzione della gente di cinema o di chi, come me, non ha perso un film del regista spagnolo, ed anzi li ha rivisti più e più volte.
In un'altra occasione mi è capitato di paragonare Buñuel a Goya, aragonesi entrambi, entrambi controcorrente, entrambi geniali, graffianti in ogni momento, capaci d'invenzioni e belle stravaganze che hanno superato le norme e i modi del loro stesso tempo. Ora, dopo aver riletto questo libro, ho da aggiungere un altro particolare comune ai due bizzarri e davvero straordinari personaggi: la capacità di far arrivare la scrittura "oltre lo steccato", perché, già si è detto di Buñuel, ma anche a proposito di Goya e delle sue lettere e delle sue bellissime didascalie ai "Caprichos", ai "Desastres de la guerra" ecc., dovremo riconoscere che quel pittore era anche uno scrittore di grandi qualità e di brucianti scorci sintattici e stilistici...
Vagabondo per amore di curiosità e d'avventura, oppure, più spesso, per condizione di esule dalla dittatura di Franco, Buñuel, dopo l'infanzia e la prima giovinezza trascorse tra il paesino aragonese di Calanda e la città di Saragozza, la sua scoperta della Madrid fervida degli anni venti, presso la Residencia de Estudiantes, luogo d'incontro del miglior gruppo d'artisti e di poeti che mai un paese seppe sformare con tanta felicità e abbondanza (e si parla di Lorca, di Dal¡, di Alberti e di tanti altri personaggi non meno brillanti e curiosi). Poi egli passa a Parigi, vista dapprima come luogo di delizie bizzarre ma anche di imprevisto antisemitismo e destrismo (uno squarcio che alcuni di noi conoscevano bene anche prima di Le Pen), e palestra d'arte fondamentale. Nondimeno, la vera scoperta di Parigi avviene pochi anni dopo: non solo con la presentazione di "Un chien andalou", opera sua e di Dal¡, ma anche e soprattutto con la scoperta e l'adesione al movimento surrealista, da cui del resto quel breve film, ormai celeberrimo, si è ispirato ed è nato.
E qui occorre sottolineare un tratto fondamentale di questa autobiografia, come del resto delle opere e della personalità complessiva di Buñuel: il surrealismo, vissuto in tutti i suoi momenti (eversivi, politici, scandalistici, innovativi, morali ed estetici), in forma di sé dalla punta dei capelli alla punta dei piedi tutto Buñuel: la sua maniera di affrontare la vita e il suo modo di vedere la gente, il suo "ateismo per grazia di Dio" e le sue simpatie e antipatie, e persino - pare ovvio, ma non lo è - il suo cinema fino all'ultimo fotogramma del suo ultimo film: "Quell'oscuro oggetto del desiderio".
La vita avventurosa, certo a modo suo, di Buñuel si muove anche tra altri due poli, per tornare alla fine in Francia e in Spagna: in Messico, dove lavora tantissimo, con film amati e meno amati; e persino negli Stati Uniti, dove si trova e si ritrova con difficoltà, alla stessa maniera o quasi di un altro esule: Bertolt Brecht. Ma poi alla fine persino Hollywood dove egli ha fatto di tutto (compresa un po' di fame) lo festeggia a braccia aperte: e questo dopo il successo del "Fascino discreto della borghesia". In una pagina memorabile, quasi una foto di gruppo in un interno, Buñuel ricorda la cena che un gruppo di registi famosi gli offerse nella "bellissima casa di Cuker"; e c'erano John Ford, Billy Wilder, William Wyler, Alfred Hitchcock, George Stevens, Rouben Mamoulian, Robert Wise e "un regista molto più giovane, Robert Mulligan". Era finalmente il riconoscimento che gli era mancato per anni ed anni...
Come ogni autobiografia di un grande ottuagenario, anche quella di Buñuel, tutta allegra e scintillante, si chiude con alcune considerazioni sulla morte, che egli attende con serenità. E colpisce soprattutto il punto in cui egli si decide di salutare i vari luoghi che gli sono stati cari: li saluta ("addio Parigi", "addio San José", "addio Madrid ", ecc.) e non gli importa se deve salutarli una o più volte: questa è la sua sorniona e ironica preparazione alla morte, all'"ultimo sospiro" (come suona il titolo originale).
P.S. - Forse, per questa seconda edizione, sarebbe stata utile una revisione delle parole e delle cose che riguardano la Spagna: nomi trascritti alla francese (sempre pessimi quando si tratta di parole straniere) e varie inesattezze di ogni genere. Come nella frase famosa di alcuni intellettuali antifranchisti, nella loro più recente tappa "democratica": "contro Franco stavamo meglio" (e non "contro Franco eravamo migliori").
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