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La danza degli ardenti
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2
1994
10 ottobre 1994
312 p.
9788879371384

Voce della critica

SCHIFANO, JEAN NO‰L, La Danza degli Ardenti, Pironti, 1988
(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)

MELCHIONDA, MARIO (A CURA DI), Drammi masanelliani nell'Inghilterra del Seicento, Olschki, 1988
recensione di Manferlotti, S., L'Indice 1989, n. 2

"Non è da esprimere facilmente il sentimento grande, che mostrò il Popolo in quest'atto di sepelire Tomaso Anello, vedendosi nei volti degli appassionati un dolore misto con ira: il che denotavano anche le parole che, meschiate dei medesimi affetti, uscivano loro di bocca. Si trovarono molti, che dissero essere Tomaso Anello risuscitato: e se per disavventura alcuno avesse contraddetto, si sarìa posto a evidente pericolo della vita: dissero altri, che già aveva mosso le mani, e preso una Corona, quale tenesse fortemente ristretta nella mano destra. Molte donne gli strapparono i capelli, serbandogli in petto, come fussero Reliquie. I ciechi, che stavano alla porta della Chiesa del Carmine, gridavano ad alta voce: A chi diciamo l'Orazione del Beato Masanello?" (Giuseppe Donzelli, "Partenope liberata", 1648).
Dal racconto di un osservatore diretto degli avvenimenti mirabolanti svoltisi a Napoli dal 7 al 16 luglio del 1647, già emerge la mutazione del cadavere sconciato di Masaniello in corpo glorioso, capace di risorgere, non fosse altro che come organismo mitopoietico: se gli storici hanno potuto presto ricondurre nei limiti di un episodio tutto sommato minore la parabola del pescatore di Vico Rotto al Mercato che il destino sospinse per qualche giorno in mezzo a cardinali e viceré, dalla bocca dei ciechi che lo proclamano Beato pare innalzarsi una lamentazione funebre ancora udibile, il primo frammento di una ballata lunga e sanguigna che reca a chiusura la doppia morale, "ribellarsi è giusto, ribellarsi è inutile". Ma di rivolte abortite e di teste tagliate la storia era ricolma, ben prima che Tommaso Aniello guidasse il suo manipolo di scugnizzi sotto le finestre di Palazzo Reale a gridare: "Senza gabella!"; e che la scena di Napoli offrisse agli occhi una metropoli asservita e piena fino all'orlo della sua feccia, era cosa fin troppo nota. È quindi nella frenesia, nell'incredibile concentrazione degli avvenimenti e degli atteggiamenti più contrastanti in un arco di tempo tanto breve, che va colta la specificità dell'intera impresa. La mancanza di una qualsiasi decantazione per le gravi scelte esistenziali, pragmatiche, politiche che molti dovettero compiere in quei dieci giorni, trasforma immediatamente l'episodio in una sequenza di conati più che di fatti compiuti e meglio lo dispone a porsi come materiale narrativo grezzo, a disposizione di chiunque sappia servirsene. Per dir meglio, è da questo violento e brevissimo spasmo della storia che i protagonisti e i luoghi stessi in cui se ne consumarono le passioni vengono fissati nei tratti emblematici che da allora in poi li segneranno. Saranno poi solo opzioni contingenti, epocali, privilegiare di volta in volta il Masaniello difensore degli oppressi o il despota venuto su dal nulla e nel nulla precipitato o il ribelle magato da miraggi e già perduto dalla sola idea di poter ledere impunemente le maestà terrene. Di fianco a lui, e di fianco a tutto questo, una Napoli esibita come un immenso ventre squarciato, esalante afrori insopportabili, assordata da un ininterotto urlìo di lazzaroni o, al contrario, come una città martoriata dall'altrui rapina e ben capace di lividi silenzi.
Quel che è certo, è che Masaniello viene subito sottratto al popolo dal quale si era innalzata la sua figura: se si esclude un po' di minutaglia aneddotica, rifritta in detti plebei non memorabili, ed una indistinta permanenza nel cosiddetto immaginario collettivo, il suo mito trascorre immediatamente ad un uso colto e ideologizzato. Un esempio singolare ma significativo è offerto in proposito dai due drammi in lingua inglese che Mario Melchionda ha ora collezionato in un'edizione filologicamente impeccabile, i quali, pur presentando fra loro uno sfalsamento di cinquant'anni, si volgono entrambi ad una strumentalizzazione della vicenda masanelliana in direzione controrivoluzionaria e filomonarchica.
Di maggiore interesse perché ben scritto appare il primo,"The Rebellion of Naples, or The Tragedy of Massenello", pubblicato a Londra nel luglio del 1649 a firma di un non meglio identificato T.B., che ha comunque cura di proclamarsi in frontespizio testimone oculare degli atti "recitati sulla scena sanguinosa delle strade di Napoli". Come si vede, all'anonimo autore non sfugge la teatralità assoluta della storia di Masaniello, n‚ la possibilità di un'utilizzazione della medesima (e in specie del suo cruento epilogo) ad uso domestico. Mentre la grande Piazza del Mercato, il Castello e gli appartamenti vicereali offrono scenografie di sicuro effetto, ed altrettanto spettacolari appaiono le gesta dei vari Duca D'Arcos, Cardinale Filomarino, Giulio Genoino, la parabola dell'ascesa e morte del Capitano del Popolo innesca un ardito parallelo (sia pure in chiave) fra la rivolta napoletana e la guerra civile in pieno svolgimento in Inghilterra. Masaniello, inquadrato in prospettiva filo-Stuart, diventa un Cromwell più straccione ma altrettanto pericoloso, a lui il drammaturgo partigiano assegna il compito di incarnare "la contrapposizione all'ordine monarchico, benevolo e paterno, del potere usurpato dal ribelle, violento e tirannico, egualitario, 'dunque' repubblicano" (p. 37, corsivo del Curatore). A questo vero e proprio falso storico (è noto che bersaglio della sommossa non fu mai il re di Spagna ma la voracissima nobiltà napoletana) T.B. ne aggiunge numerosi altri, che culminano nell'uccisione di Masaniello nella Piazza del Mercato e non all'interno del Convento del Carmine, dove fu di fatto archibugiato e poi mutilato, ad accentuare il valore di monito 'erga omnes' dell'esecuzione.
Ma le falsificazioni intenzionali del signor T.B. sono nulla rispetto alle fantasiose invenzioni di Tom D'Urfey che a distanza di mezzo secolo, attingendo principalmente e con libertà sfrenata alle edizioni inglesi della celebre cronaca di Alessandro Giraffi "Le rivoluzioni di Napoli", mise a punto uno spettacolo "totale", infarcito di musiche, danze e pantomime. L'Inghilterra restaurata del 1699, l'anno in cui il "Massaniello" andò in scena, non presentava più il magma incandescente dei tempi di Cromwell: la rivolta napoletana, evento ormai esotico e privo di ogni connotazione specifica poteva ora diventare uno dei tanti canovacci a disposizione di un teatro di consumo e di regime che autori come D'Urfey mostravano di rappresentare degnamente. È probabile, anzi, che soltanto la spinta di un revanscismo assatanato abbia calamitato un campione della Restaurazione, quale Tom D'Urfey fu, verso il luglio del 1647: il profilo ideologico dell'opera si mantiene infatti costantemente basso, fin troppo didascalico, a vantaggio dell'effondersi di uno show contaminato e bizzarro che cresce di interesse quanto più s'allontana dalla verosimiglianza storica. A cominciare dall'attribuzione a Masaniello di una seconda moglie (tale Blowzabella) e di due figlie adulte, fino al prodigioso intervento in scena di San Gennaro che si incarica di stigmatizzare personalmente il ribelle, proseguendo per canzoni grassocce e bassamente umorali ed arrestandosi infine di fronte al granguignolesco finale, il lettore di oggi può di tanto in tanto avvertire la sensazione, tutt'altro che sgradevole, di trovarsi di fronte ad uno spettacolo non vecchio di secoli ma di decenni, sperimentale in alcune sezioni, un po' kitsch e 'off-off'in altre.
Si dovrà quindi attendere l'Ottocento perché la figura di Masaniello, pagato un pedaggio d'oblio non indifferente, assuma quei tratti romantici che da allora, a ben vedere, non ha più perduto. In fin dei conti, il "principe pescatore", paladino dei diseredati, esibito nel 1825 al Drury Lane di Londra da G. Soane (l'opera recava il titolo "The Fisherman of Naples") non è molto distante dal capo-popolo proposto nel 1974 in atmosfere post-sessantottesche da Elvio Porta e Armando Pugliese con il musical intitolato, manco a dirlo, "Masaniello": che il ri-uso poi, avvenisse ancora una volta all'interno di un circuito colto e ideologizzato, era dimostrato dalla canzone conclusiva "'O Cunto 'e Masaniello", invenzione di certo abilissima di Roberto De Simone, ma che richiamava in vita il cadavere anch'esso romantico del falso-popolare (sentiero percorso poi fino in fondo dal maestro che nella "Cantata per Masaniello", presentata nel dicembre del 1988, ha affiancato al mito del pescatore napoletano quello di un messianico Che Guevara).
E romantica e romanzesca al di là di ogni limite, forse contro le intenzioni dell'autore, appare ne "La Danza degli Ardenti" di Schifano la figura di Masaniello e della città che ne condivise le gesta: "Come le stelle di mare, i bassi vomitano i loro troppo numerosi abitanti all'esterno, sulla scacchiera di lava del vicolo: essi svaginano il loro pesante stomaco cinereo nella polvere e nel fango, tra i detriti, gli stronzi d'uomo e d'animali domestici, lo sterco di volatile. A ogni escremento il suo aroma, sotto la lama blu del cielo, tagliato dagli alti muri irregolari delle case" (p. 134).
Di simili lacerti (quello citato è fra i più sorvegliati e castigati) è intessuto il lucido delirio dello scrittore francese che a digressioni storiche, o per dir meglio di storia anch'essa romanzata, sovrappone di continuo un'ardente danza verbale, tutta giocata su voluti eccessi e tutta, diciamo così, dalla parte del popolo vinto. Masaniello, descritto soprattutto negli anni dell'adolescenza, vi riveste un ruolo che è a metà fra il 'genius loci' e il teppista alla "Arancia meccanica" (suo spasso preferito è la sodomizzazione di fanciulli). Sinceramente innamorato di Napoli come tanti intellettuali d'oltralpe, Schifano pare perdersi sulla superficie degli eventi quanto più si dimena nelle viscere del suo oggetto d'amore. In fin dei conti oltre alla diluizione di luoghi comuni della storiografia ufficiale (era l'aristocrazia parassita il cancro della città!) e dell'antropologismo 'leftist' (sono le passioni del popolo e dei suoi corpi le più vicine al vero!), non c'è molto. Quanto allo stile, parleranno alcuni di romanzo-rapsodia, di ritmo irresistibile, di impasto linguistico sapido ma inebriante; altri, sbadigliando alla parola "trasgressione" ed impavidi di fronte alle ovvie accuse di moralismo, lo definiranno piuttosto romanzo-masturbazione, dalla prosa manierata, stucchevole, irritante.

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Dalle sue “Cronache napoletane” del 1984 fino a “Le coq de Renato Caccioppoli” del 2018, tutti i libri dello scrittore, traduttore ed editore Jean-Noël Schifano portano il segno della sua passione per il capoluogo partenopeo, dove ha vissuto e diretto il Grenoble dal 1992 al 1998. Nel 1994 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria di Napoli.

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