Il Fiore, rifacimento in 232 sonetti del Roman de la Rose di Guillaume de Lorris e Jean de Meun, è uno dei casi letterari che più appassionano, da oltre un secolo ormai, studiosi e cultori di letteratura medievale. Lo hanno reso tale fin dal momento della sua scoperta nel 1878, in un manoscritto assegnato al XIV secolo e conservato a Montpellier, la relazione, immediatamente colta, con l'imponente opera francese, la lingua fortemente mescidata, a base toscana, ricca di francesismi e occitanismi, e, soprattutto, la presunta firma interna "ser Durante", che poteva celare il nome Dante, sua variante ipocoristica. Tale nome viene contestualmente riferito al protagonista del Fiore e dovrebbe alludere a una qualità richiesta a un perfetto amante oppure avere una valenza burlesca e allusiva: dato però che è declinato in un luogo testuale corrispondente a quello in cui Jean fa coincidere l'autore della prima parte dell'opera, Guillaume, con l'Amante stesso, fin da subito iniziò una girandola di ipotesi sulla possibile identità storica di uno scrittore italiano rispondente al nome di Durante/Dante.
Contini si applicò alla risoluzione dell'enigma con tutta la ricca e rigorosa strumentazione filologica e storico-letteraria in suo possesso, e, al di là dell'attribuzione a Dante Alighieri, già timidamente avanzata da più parti ma da lui sostenuta con il massimo di convinzione scientifica e personale, costruì attraverso i suoi studi e una nuova edizione del testo una sorta di monumento critico al Fiore, imprescindibile punto di riferimento per tutti gli approcci successivi, su molti dei quali, per un trentennio almeno, esercitò un condizionamento di non piccola portata. Andarono cosi via via infittendosi gli studi e le prove a favore dell'illustre paternità. Poche le voci dissonanti, ma non prive a loro volta di riscontri significativi, con un ventaglio di attribuzioni che va da Brunetto Latini a Lippo Pasci de' Bardi, da ser Durante di Giovanni a un altro non identificato Durante, attivo a fine Duecento e amico di Brunetto, da Rustico Filippi a Dante degli Abati, da Folgòre da San Gimignano a Dante da Maiano, da Guillaume Durand a Immanuel Romano, fino ad Antonio Pucci.
Un "volto mutevole", a ben guardare, quello che il rifacimento della Rose ha disvelato nel corso di un secolo di studi: l'intento di Pasquale Stoppelli, filologo noto anche a un pubblico non specialistico come ideatore della Letteratura Italiana Zanichelli, è proprio di soppesarne il significato in termini critici. Sotto la lente di Stoppelli, che mette in campo un'analisi linguistica, lessicale, stilistica e metrica molto articolata, rivedendo una serie di concordanze tra i sonetti e la poesia italiana del Due e Trecento e presentandone alcune inedite, il Fiore pare essere una sorta di centone, in cui domina la memoria dell'Alighieri: osservazione di gran peso, quest'ultima, intesa a ribaltare il senso attribuito da decine di studi alla "danteità" dell'opera.
Passare da una lettura dell'opera a un tentativo di attribuzione è inevitabile anche per l'autore di questa monografia, che interviene nel dibattito con rigore e insieme esemplare e pacato atteggiamento interlocutorio. La sola figura storica nota e sovrapponibile ai tratti delineati è a suo parere quella di Dante da Maiano, nome già avanzato in passato, ma senza, a monte, un minuzioso e ambizioso tentativo di dimostrazione. Della vita di Dante da Maiano, che ha lasciato un corpus di quarantasette componimenti a tradizione tarda e per lo più unitestimoniale, nulla però si sa, come Stoppelli fa correttamente notare: eppure l'ottima conoscenza del francese posseduta dal nostro anonimo autore dovrebbe essere al centro dell'attenzione. Inevitabile dunque chiedersi come e perché il maianese della cui esistenza si è, in passato, persino giunti a dubitare − avrebbe avuto una competenza linguistica e un così travolgente interesse per il Roman de la Rose che diano conto della riscrittura da lui attuata, e per eventuale consiglio di chi si sarebbe procurato il testo. La cerchia brunettiana, verso cui indirizzano anche alcuni dati esterni e riscontri tematici (utili se non per una perizia attributiva, almeno per un'indicazione cronologica), fornirebbe una risposta indubbiamente più lineare.
Resta poi ancora un po' nebuloso il senso della lingua creola, così anomala nel panorama letterario toscano e quindi, in astratto, non privilegiabile da un "onnivoro", benché straordinario, facitore di centoni, che pur non rifugge dall'impiego di già ben collaudati francesismi: scelta intenzionale? provocatoria? sperimentale? oppure inintenzionale, in qualche misura "obbligata"?
Un pregio non secondario di questo lavoro, comunque, oltre al principale di tener vivo l'interesse per un'opera così enigmatica e proteiforme con nuovi importanti spunti di riflessione, è anche l'aver incrementato le conoscenze sulla scrittura di Dante da Maiano e sostanziato affermazioni − circa i rapporti del maianese e la lirica antecedente e contemporanea − mai così puntualmente documentate. Silvia Buzzetti Gallarati
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