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Dante. La Divina Commedia illustrata da Flaxman - copertina
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Descrizione


Il volume riunisce e riproduce per la prima volta il corpus delle illustrazioni dantesche di John Flaxman conservate in taccuini di provenienza da musei inglesi e americani, a tutt'oggi quasi del tutto inediti. Il grande disegnatore inglese (1755-1826) illustrò della Divina Commedia tutti i cento canti, scegliendo per ognuno di essi un episodio che per qualche motivo suscitò il suo interesse. Il volume dedica a ogni canto una doppia pagina e riporta l'incisione definitiva, gli studi preparatori e le varianti, la trascrizione dei versi danteschi che lo stesso Flaxman aveva riportato sui suoi disegni, e un accurato commento critico.
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Dettagli

2004
279 p., ill. , Rilegato
9788837023713

Voce della critica

Sono passati più di duecento anni da quando le illustrazioni di John Flaxman alla Commedia dantesca, e allÆIliade e allÆOdissea omeriche, furono pubblicate, ma nell'immaginazione dell'Europa e dell'America, in particolare in ambiente anglosassone, le sue figure, le sue linee, i suoi movimenti, non sono mai venuti meno. Lo scultore che ha nobilitato con neoclassico, monumentale fervore l'abbazia di Westminster e la cattedrale di San Paolo a Londra, il disegnatore delle ceramiche Wedgwood, l'ideatore del Trafalgar Vase e dello Scudo di Achille, l'inventore della "linea pura" le cui opere riempiono la Galleria Flaxman allo University College di Londra, trovava una misura tutta sua - e immensa fortuna - nel dare contorni e volti ai poemi di quella che egli, con tutto il secondo Settecento, considerava l'umanità "primitiva". Allo stesso tempo, fissava l'iconografia dei personaggi e delle scene di Dante per almeno un secolo: Blake, Goya, Gericault, Ingres, David e Rossetti copiarono o modificarono i suoi disegni.

Il volume che ora ci restituisce la Commedia illustrata da Flaxman in splendida sequenza è pieno di sorprese. Non solo perché, come dichiara Francesca Salvadori nel suo bel saggio introduttivo, ricostruisce con cura l'"idea di Dante" che l'artista giunse a elaborare attraverso lo studio degli abbozzi come vere e proprie "varianti d'autore", ma anche perché leggendolo e guardandolo si ha l'impressione di viaggiare attraverso la storia dell'arte europea moderna. Se si apre il libro, per esempio, al canto III dellÆInferno, si trova una potente illustrazione della barca di Caronte. Le anime dei dannati, il "mal seme d'Adamo", "gittansi di quel lito ad una ad una, / per cenni come augel per suo richiamo", simili alle foglie che d'autunno si levano "l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo / vede a la terra tutte le sue spoglie". Battute dal remo del nocchiero, esse si accalcano sul vascello infernale: "così sen vanno su per l'onda bruna". È proprio questo verso di definitiva e nuda, perché non commentata, disperazione che Flaxman sceglie. Ebbene, quando guardiamo l'imbarcazione e le figure emergere dal primo al secondo abbozzo e poi all'illustrazione finale, vediamo prendere corpo con sempre maggiore nettezza quella che Salvadori chiama la "vena michelangiolesca". I corpi e le posture dei dannati assomigliano sempre di più ai Prigioni dell'Accademia e agli Schiavi del Louvre; il volto di Caronte assume le fattezze corrugate del Mosè.

Questa "vena" percorre poi l'intero ciclo, e ad essa Flaxman "si affida quando il testo richiede raffigurazioni di particolare vigoria". Del resto, quando giunge a Purgatorio XII, l'illustratore sceglie come tema la caduta di Lucifero: nel primo schizzo non fa che copiare per questo la figura al centro del Giudizio Universale del Signorelli a Orvieto. Ma in quello successivo, e poi nel disegno definitivo, cita direttamente, mi pare, proprio a partire dalle mani che l'angelo ribelle tiene giunte a pugno sulla fronte, una delle figure del Giudizio Universale della Sistina.

D'altra parte, nelle illustrazioni per l'episodio di Paolo e Francesca (due) e in quelle per Ugolino (ben tre) Flaxman inaugura un'iconografia che diventerà ben presto canonica. Quelle per il canto XXXIII dellÆInferno, per esempio, rispondono mirabilmente alla sensibilità con la quale la cultura inglese, da Chaucer a Sir Joshua Reynolds a Medwin e Shelley, Byron, Blake, Gladstone, sino a Seamus Heaney, ha reagito alla scena e al racconto di Ugolino. Mentre il modello flaxmaniano in due tempi, "in vita" e "in morte", della vicenda dei due amanti, ha poi dettato l'impostazione di Ingres, Dyce, Delacroix, Rossetti e Rodin, ispirando indirettamente - credo - il Keats del celebre sonetto As Hermes once took to his feathers light.

Ancora per lÆInferno, vorrei segnalare l'intertestualità, per così dire, che si crea nell'immaginazione di Flaxman fra il testo dantesco e quello dellÆOdissea, alla cui illustrazione egli lavorava nello stesso periodo. Ulysses Terrified by the Ghosts, il disegno che "commenta" la nekyia del Libro XI, ha naturalmente movimento simile a tanti di quelli "infernali", ma contiene inoltre una figura appena schizzata che appare assai vicina a quella del Lucifero cadente di Purgatorio XII. Mentre la scala e il volto di Anteo, per Inferno XXXI, sono strettamente imparentati a quelli di Polifemo per il Libro IX dellÆOdissea.

Quando giunge al Purgatorio, la linea di Flaxman si eleva per rispondere alla resurrezione della "morta poesì" che Dante annuncia nel canto I. Basterà paragonare le ben tre illustrazioni da lui elaborate per il "vasello snelletto e leggero" con il quale l'angelo porta alle rive dell'isola le anime dei penitenti, nel canto II, al disegno della barca di Caronte di Inferno III. L'imbarcazione, a dispetto della sua aerea leggerezza nel testo dantesco, appare simile a quella del demonio (essa non sfiora affatto l'acqua, come Purgatorio II, 42 precisa, ma la solca appieno). Tuttavia, le figure umane non hanno più le fatture michelangiolesche, e in particolare le disperate contorsioni del Giudizio Universale, che presentavano allora. I corpi vanno affinandosi, come perdendo a poco a poco la loro muscolatura di nudi possenti: si ha l'impressione che Flaxman abbia colto la differenza fra il " gittansi di quel lito ad una ad una" di Inferno III e lo speculare, opposto "ond'ei si gittar tutti in su la spiaggia " di Purgatorio II.

Del resto, se il buonarrotismo riemerge inevitabilmente per i superbi del canto XI (e come era possibile che ciò non accadesse, data la loro postura di Prigioni incompiuti?), Flaxman si mostra perfettamente cosciente dei contrappunti e contrappassi interni alla Commedia quando, per esempio, schizza due diavoli ben diversi per il "nero cherubino" che in Inferno XXVII strappa l'anima di Guido da Montefeltro a san Francesco e "quel d'inferno" che, in Purgatorio V, deve accontentarsi del corpo morto del figlio di lui, Buonconte.

Una tensione verso l'alto comincia giustamente ad animare le linee di Flaxman nel Purgatorio, ed esemplare in questo senso appare la raffigurazione di Forese per il canto XXIII: nuda e vigorosa figura maschile ancora una volta di stampo michelangiolesco, che sale però a mani giunte verso i raggi divini mentre la moglie Nella, avvolta nel mantello e a capo velato, giace prostrata a terra implorando per lui: "la Nella mia con pianger dirotto. / Con suoi prieghi devoti e con sospiri / tratto m'ha de la costa ove s'aspetta, / e liberato m'ha de li altri giri". A poco a poco, si afferma nel Purgatorio quel che, forse spingendomi indebitamente oltre il percorso della Salvadori, chiamerei il "pre-bearsdleyismo" di Flaxman: quei tratti di dolcezza e levità, di "delicatezza 'soave e piana'" già presenti nell'apparizione di Beatrice a Virgilio in Inferno II che culminano poi in quelli di Matelda in Purgatorio XXVIII e naturalmente di Beatrice, nuovamente, in Purgatorio XXX. E se questa fosse l'"acqua distillata" di cui parlava Mario Praz a proposito del nostro illustratore, lo si potrebbe prendere per un complimento.

È forse nel Paradiso, e soprattutto nei canti che dalla metà vanno verso la fine del poema, che l'inventiva di Flaxman si dispiega appieno per noi moderni. Esemplare in tal senso la "variante" dedicata al modo in cui le anime vanno a formare il verso con cui si apre il Libro della Sapienza, " Diligite Iustitiam ". La D iniziale costituisce uno stupendo arabesco araldico di figure femminili e maschili come sospinte da un invisibile vento interiore verso la giustizia divina. Altrettanto affascinante, il semicerchio di angeli oranti verso i quali si protende dall'alto la sola mano di Dio, a illustrazione della creazione degli ordini angelici in Paradiso XXIX: dove la mano del Creatore senza dubbio ricorda quella "dell'arte bizantina" presente anche a Roma, ma con la "suggestione" che credo certa della creazione di Adamo nella Sistina. Infine, due intuizioni decisamente premoderne per Paradiso XXVIII e XXXIII.

La circolarità prende qui il sopravvento, eliminando man mano dalla linea ogni memoria creaturale. Nel primo schizzo del "punto che raggiava lume" di Paradiso XXVIII rimanevano, in cerchio attorno al sole che lo rappresenta, i cori angelici, come fosse in un purificato trionfo barocco. Nel disegno definitivo campeggiano invece nude linee circolari inghirlandate di stelle, nove, a figurare le nove intelligenze dei cieli: mirabile visione cosmologica del puro intelletto e del movimento eterno. Quando Flaxman giunge con Dante al canto supremo, il XXXIII, ecco impadronirsi della sua mano i "tre giri / di tre colori e d'una contenenza" che rappresentano la Trinità. Al loro interno, il mistero dell'Incarnazione: una "circulazion" che appare come "lume reflesso", al centro del quale compare, tracciata con lievissima puntinatura, una parvenza umana priva di tratti individuali: l'umanità incarnata di Cristo e insieme, come felicemente intuisce la curatrice, Dante stesso, l'Argonauta che veleggia ora, su nave fatta mera ombra, per l'oceano che è Dio.

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