Sono passati diversi anni da quando decisi di avviare questo lavoro di comparazione tra le diverse teorie delle scienze storico-sociali che si preoccuparono di studiare il mondo del lavoro e i suoi mutamenti. Quando scrissi il presente testo, scelsi di iniziare a studiare l’evoluzione del lavoro in relazione alla nuova scalarità globale. Il 2012, anno in cui iniziai questi studi, fu un anno particolarmente complicato per l’Italia, ma più in generale per i paesi del Mediterraneo. Era trascorso poco più di un anno dallo scoppio delle Rivoluzioni colorate. Erano passati solo quattro anni dallo scoppio della recessione economica globale scatenatasi con la crisi dei mutui subprime, uno sconvolgimento della finanza globale iniziato appunto con lo scoppio di una bolla immobiliare tra il 2007 e il 2008, e il tracollo della banca speculativa d’investimento americana Lehman Brothers del settembre 2008. All’interno di questa grande crisi globale, si innescò così un’altra terribile crisi del debito, che nel Vecchio Continente, mostrò le sue caratteristiche più nefaste. La Grecia subì le più radicali conseguenze, come anche gli altri paesi geograficamente periferici rispetto al perno geografico, economico e finanziario dell'Eurozona. Questi paesi in recessione economica vennero ben presto ribattezzati dalla stampa e dai circoli finanziari anglosassoni con l’offensivo acronimo di “PIIGS”, che presto si diffuse a mezzo stampa. Solo nel nostro paese in quell’annus horribilis, il 2012, a pochi mesi dall’insediamento del “Governo dei Tecnici” presieduto da Mario Monti, si registrava una media giornaliera di oltre 30 fallimenti aziendali, oltre mezzo milione di nuovi disoccupati, il PIL fece segnare un poco rassicurante -2,4%. Decisamente un pessimo anno per cercare lavoro per i neolaureati. Sfortunatamente le famiglie medie italiane se la passarono decisamente peggio. Tornando ad un’analisi globale, tale andamento del capitalismo, pur essendo certamente un inedito storico, mostrava alcune importanti connessioni e regolarità con le politiche di deregolamentazione avviate nella sfera di civiltà anglosassone sin dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso, già allora era possibile percepire le conseguenze sociali ed economiche del processo di globalizzazione. Già nel 1978, con l’opera di Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico, la sociologia del lavoro dispone di un primo importante studio che cercò di sistematizzare i mutamenti incorsi nell’universo del lavoro e dei processi produttivi nell’ottica di un ampliamento di scala del capitalismo. Braverman studiò e approfondì l’impatto della crescita del capitalismo industriale sui processi lavorativi, destando particolare attenzione sulla concentrazione delle grandi corporation e delle industrie monopolistiche. Oggi a distanza di oltre quattro decenni dall’affermazione del binomio management-meccanizzazione, sappiamo quanto l’automazione ricorsiva abbia sensibilmente modificato l’assetto organizzativo e la struttura occupazionale delle imprese, del mercato e dei processi di accumulazione degli Stati-nazione. Il management è diventato un settore aperto ai processi di ristrutturazione del lavoro e coinvolto nella deriva verso il precariato. Dopo l’impresa, anche i suoi gruppi dirigenti sono diventati una merce: interinali inviati da agenzie oppure autonomi per incarichi a progetto. Se i direttori delle scuole di management continuano a pensare che il management non sia una vera e propria professione, non si devono allora stupire se molti di coloro che lo praticano decadono dallo status elevato di tecnoprofessionisti a quello di precari “usa e getta”. Il processo di terziarizzazione dell’economia del lavoro incorso a partire dalla seconda metà del Novecento, suggerì ad autori come Dahrendorf la possibilità di una “società del lavoro” che subisce ridimensionamenti della base
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