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scheda di Schirripa, P., L'Indice 1990, n. 1
Il libro di Silvia Mancini non si presenta come un tentativo di delineare i punti fondamentali del pensiero di Lévi-Bruhl, operazione questa che del resto troverebbe nel corso della storia degli studi antropologici diversi precedenti, né tantomeno esso vuol essere un tentativo, come il titolo potrebbe lasciar supporre, di descrivere un percorso, più o meno giustificato, che dal pensatore francese porti fino alle più recenti ricerche intorno alle forme del percepire e del rappresentare tra le società extraoccidentali.
Il punto di partenza di questo interessante lavoro va cercato piuttosto nella constatazione che all'opera di Lévi-Bruhl ci si è spesso accostati in modo unilaterale e riduttivo, perdendo così un'occasione per riflettere, al di là delle polemiche sul pre-logismo, sulla portata teorica complessiva della proposta di lettura della mentalità primitiva avanzata dall'antropologo francese. Analizzando la sua produzione da questa prospettiva, l'autrice, che comunque non tralascia di soffermarsi sulla formazione di Lévi-Bruhl (sottolineando l'influenza che su di lui ha avuto il pensiero di Fustel de Coulanges) e sul clima intellettuale in cui la sua opera ha visto la luce (ottima è l'esposizione del dibattito filosofico di quegli anni, visto soprattutto in riferimento alle acquisizioni teoriche di Husserl e della fenomenologia), isola quello che potremmo definire come il "nocciolo duro" della sua proposta teorica, individuato nella teorizzazione di una mentalità primitiva i cui meccanismi di percezione del reale siano radicalmente diversi da quelli del pensiero occidentale, basati su di una mentalità logico-operativa.
Se da una parte tale tesi fa sì che Lévi-Brhul possa essere considerato come un pioniere ed un anticipatore di quegli studi sui meccanismi della percezione, della rappresentazione e della classificazione tre le società primitive che vanno sotto il nome di "antropologia cognitiva", dall'altra, come l'autrice non manca di sottolineare, essa, con il relativismo assoluto che vi è insito, rappresenta un momento di netta "rottura epistemologica" con tutta la tradizione sociologica francese che, da Durkheim a Lévi-Strauss, ha basato ogni sua costruzione teorica sull'assunto dell'identità dei meccanismi logico-formali del pensiero in ogni società banana.
Non si possono ripercorrere, in questo spazio, tutte le lucide riflessioni di Silvia Mancini. Ci preme comunque sottolineare come questo libro ci restituisca un autore, spesso ingiustamente bistrattato, che può esser ancor oggi occasione di stimolo e di confronto.
Come si organizza la mentalità che presiede alla nascita delle credenze e delle condotte fra le società esotiche? A questa domanda tutta l'antropologia come scienza dell'alterità ha tentato di fornire risposte: ora interpretando il pensiero primitivo comeuna forma in gestazione del pensiero razionale, ora rivendicandone la piena natura logica come condizione essenziale a qualsiasi produzione spirituale degli uomini, primitivi o civilizzati che siano. Lèvy-Bruhl fu il primo studioso che, forzando sia l'alternativa evoluzionista dell'antropologia classica sia quella antievoluzionista, non ha inteso appiattire le civiltà extra-occidentali entro gli schemi di una razionalità a loro estranea.
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