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Un recluso:corpo glommero di sensazioni avute. Un custode: ombra pesa di concessioni date. Ed una parete, che si rivela siepe: esluso all'orizzonte il guardo, leopardianamente, "interminati spazi al di là da quella" riporta in pagina. Isolamento e reclusione, difformità e disagio nel romanzo di Carmelo Samonà ma, si badi, non coniugabili al singolare. L'ispanista fattosi scrittore cede al lettore più attento la condivisione d'una condizione d'anima: incidente per carnalità soppressa. Gli occhi son "decine di pupille lucide", il pensiero si fa "idea multipla, ricca, spesso contraddittoria" ed il corpo "si raddoppia anche, e addirittura si moltiplica". Quanto poco conta il fisico degrado del tangibile: contare e ricontare i propri passi, misurare lo spazio per apertur di braccia, calcolare il tempo per respiro. Il recluso sa che è cinto da "una specie di rivolta della materia". Il silenzio si fa clamore, la stasi è movimento. Si legga: "Fra le pareti tutto circola e ondeggia, si sposta, si propaga, si scuote, le cose mirano a sfiorarsi, a intrecciarsi da ogni parte, seppure a strappi, ad ammiccamenti fulminei, come rubando il tempo a un copione già rigido e ormai superato". Un malato, un prigioniero, forse un folle. Un idiota immemore che esiste un ordine, un paranoico disabituato al raziocinio, un dissociato dal vero condiviso. Oppure un' anima gravata dal candore, sedotta e violata dalla vita, inadatta ora a quel nero pesto che chiamiamo mondo. Terminata la lettura, chiuso il volume, vien da guardarsi intorno: è parete, guscio o siepe quello che ci cinge? E' libertà o prigionia ciò che respiriamo?
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