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L'India è una macchina immaginifica tra le più produttive: le caste, Gandhi, le vacche sacre, Bollywood, Visnù, i guru, l'informatica indiana, il paese emergente, la più grande democrazia del mondo, lo yoga, il sanscrito, la tigre del Bengala, il Kamasutra, i raga… Ce n'è per tutti i gusti. Per questo è difficile dissolvere la nebbia che ci avvolge quando ne parliamo. Marina Forti con questo libro invece ci riesce benissimo e impiega 164 pagine per presentarci un'India fuori dalla nostra portata immaginativa. Lo fa soprattutto dando la parola a donne e uomini che vivono in una certa area del paese nota come tribal belt o anche mineral belt. La semplice sovrapposizione delle due belts, tribal e mineral, già spiega molte cose. Si tratta di popolazioni adivasi, "abitanti originari", volgarmente definite "tribali", novanta milioni di persone, l'8,6 per cento della popolazione, che abitano zone ricche di giacimenti minerari. Secondo il canone dominante, se sei tribal sei per definizione ignorante, primitivo, superstizioso e pericoloso, anche se spesso si tratta di società egualitarie e senza gerarchie di genere. Ma c'è lo "sviluppo" e la "crescita" da sostenere, il Pil da far marciare (6-7 per centodi incremento annuo), se l'India vuole restare tra i "paesi emergenti", i famosi Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) e dettare, domani, le leggi del capitalismo globale. Le miniere vanno sfruttate a ogni costo. Per farlo bisogna requisire terre, land grab la chiamano, sfollare e spostare villaggi, recintare territori, installare grandi impianti industriali, deviare fiumi, sezionare montagne, diffondere la corruzione, e tutto ciò che è previsto da quella mega macchina sociale che Marx definiva "accumulazione originaria", cioè l'espropriazione mercantile o coatta di ogni bene comune. Ce lo chiede lo sviluppo, è il mantra. Per i sordi a questo richiamo scatterà la guerra sporca, salwa judun, misto di interventi di esercito, polizia, paramilitari, già visti all'opera in altre parti del mondo in questa identica formazione. Tutto quadra. Se non fosse che di mezzo ci stanno i naxaliti che, nonostante il nome esoterico, praticano una vecchia-nuova guerra di popolo di stampo maoista contro l'appropriazione forzata delle terre e delle vite umane che vi abitano. Una terminologia vintage che tuttavia riferisce di un conflitto di ampie proporzioni e di una concreta alternativa di crescita umana e sociale. Nel paese che ha inventato i subaltern studies, Marina Forti va dai subalterni, ne ascolta le ragioni, dà voce alle paure e alle speranze, imposta una narrazione calda, se così si può dire. Non sta a metà strada tra documentazione e fiction, come è diventato di moda, ma registra con gli occhi, con le orecchie e con l'intelligenza del cuore le aspettative e i contrasti, i programmi, le forme organizzative, le risposte isteriche e qualche volta atroci del potere. La gestione delle fonti è rigorosa tanto quanto la sua soggettività è intonata al mondo di vita che esplora, senza soverchiare e senza nascondersi. Noi che viviamo in una "tribal belt" molto particolare non possiamo che essere rinfrancati dal comune domicilio del mondo che questa lettura "indiana" ci porta a conoscere. Claudio Canal
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