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"In Sicilia a quei tempi, non c'erano altri maestri tranne i preti, la cultura dei quali non andava oltre le lingue morte. (
) I giovani che uscivano dalle loro scuole erano troppo spesso costretti a cavarsela dando cadenza toscana alle forme dialettali; e mentre per questa ragione incappavano in grossolani errori, infarcivano contemporaneamente le loro scritture di voci e costrutti disusati e rancidi che i loro maestri stimavano preziosi e squisiti" (Federico De Roberto, Il volo di Icaro). Grande teorico del verismo, Capuana confesserà a Neera, dopo le fatiche della terza edizione della Giacinta, e dunque sulla propria pelle, quanto potesse nuocere a un'opera d'arte "l'improprietà dei vocaboli" e "la poca precisione della frase", consapevole però che erano state queste stesse difficoltà ad accendere la passione della semplicità e della rapidità. Fu attraverso le fasi di rielaborazione del suo romanzo, la Giacinta appunto, che Capuana si accorse che il processo di scarnificazione cui aveva sottoposto la materia narrativa conduceva "con naturalezza" sulla strada del palcoscenico. Se per Verga la seduzione delle scene viene assai prima del trionfo della Cavalleria rusticana (1884), vale a dire durante il periodo fiorentino, per Capuana bisogna risalire più indietro, alla primissima giovinezza in Sicilia: sono di quegli anni le tracce di una travolgente vocazione tragica, presto occultata dalla severità del critico che arrossiva dinanzi alle ingenuità giovanili. Giunto a Firenze nella primavera del 1864 con l'illusione sublime di diventare lo Shakespeare d'Italia, abbandonerà ogni velleità di scrittore tragico ma non la passione per il teatro.
A far luce sulla preistoria della creatività capuaniana furono alcuni studi pionieristici di Gianni Oliva, frutto della frequentazione dell'allora fatiscente Biblioteca di Mineo, primo fra tutti Capuana in archivio (Salvatore Sciascia Editore, 1979). Erano gli ultimissimi anni settanta, gli stessi in cui il bibliotecario Croce Zimbone lavorava al catalogo La biblioteca Capuana, dato alle stampe nel 1982 e tuttora di grande utilità. Ancora, di Oliva, seguirono puntuali aggiornamenti sulla critica e sulla bibliografia capuaniana, fino alla pregevole edizione, in anni più recenti, del Teatro italiano (Sellerio, 1999).
Per le cure dello stesso studioso sono usciti da Salerno i primi due tomi dell'Edizione nazionale delle opere di Luigi Capuana (vol. X): Le cronache teatrali (1864-1872). Il primo comprende il testo del Teatro italiano contemporaneo (1872), il secondo (Cronache e scritti teatrali sparsi (1864-1867) recupera per la prima volta in forma completa e cronologicamente ordinata gli scritti teatrali sparsi che lo scrittore di Mineo compose nel periodo fiorentino, ma non fece confluire nel libro del '72. I volumi sono corredati da un repertorio degli autori recensiti, preziosissimo strumento per chi studia il teatro italiano ed europeo del secondo Ottocento. Nel cantiere dell'Edizione nazionale, diretto da Gianvito Resta, si stanno allestendo complessivamente quaranta volumi, cinque di romanzi, dodici di novelle, cinque di fiabe e racconti per ragazzi, quattro di teatro, sei di poesie e scritti critici, tre di operette, tre di carteggi, due di bibliografia. Lo studioso e il lettore potranno finalmente affidarsi a testi filologicamente corretti, entrare nell'officina dell'autore, confrontare le edizioni, decidere, documenti alla mano, se Capuana era davvero scrittore frettoloso e distratto o se invece semplicemente si dibattesse alla ricerca sofferta di uno stile.
Può sembrare una strana scelta, ancora oggi, quella di far cominciare la restituzione dell'opera omnia dello scrittore da una produzione a tutta prima marginale, come quella delle cronache teatrali. Nel 1902 Cesare Levi paragonava con amarezza l'ufficio del critico a quello del "distributore di programmi o del cartellone annunziante lo spettacolo della giornata", una critica "ferroviaria" a uso e consumo del fruitore di teatro. In questo panorama, tuttavia, non mancarono illustri eccezioni e non è azzardato dire che con Luigi Capuana quella scrittura, costretta a fare i conti con l'effimero della scena, andava conquistando la dignità di un genere a tutti gli effetti letterario.
Dopo di lui, sulle pagine della "Nazione" scrissero di teatro Yorick (al secolo Pietro Coccoluto-Ferrigni) e Jarro (Giulio Piccini); vennero poi, per altri giornali, Edoardo Boutet e Giovanni Pozza, e poi ancora Adriano Tilgher e Silvio d'Amico, Marco Praga e Renato Simoni, Gramsci e Gobetti. Ciascuno con la sua fisionomia di scrittore, giornalista, drammaturgo, o persino filosofo. Il teatro, per vivere, diceva Raboni presentando una scelta delle cronache drammatiche di Renato Simoni, ha bisogno di chi fa e di chi assiste, di chi "costruisce con i suoi gesti e la sua voce una metafora dell'esistente o del possibile e chi raccoglie questa metafora", trasformandola dentro di sé in emozione e senso.
Questa finalità è la stessa che porterà Luigi Capuana a raccogliere i suoi articoli scritti "alla spicciolata" sul quotidiano di Firenze in un testo organico, Il teatro italiano contemporaneo, con il desiderio di lasciare una riflessione su un momento decisivo per la letteratura drammatica della Nuova Italia. Il libro, ricavato dal "fascio dei pezzi di giornale provvisoriamente allestito", era stato proposto senza successo all'editore Barbèra, che lo aveva rispedito al mittente evidentemente poco persuaso dalle entusiastiche argomentazioni avanzate dall'autore. Fu poi per intercessione dell'etnologo siciliano Giuseppe Pitré che il libraio editore di Palermo Luigi Pedone Lauriel decise di imbarcarsi nell'impresa.
Si capisce che dietro la decisione di "cucire insieme" un volume di scritti nati "alla spensierata, sotto l'influenza d'un'impressione vivace" (Al lettore, tomo I), c'è un sogno più ambizioso, quello di scrivere una storia della letteratura drammatica impostata secondo principi che Capuana va confusamente consolidando in questi anni, la convinzione che le forme letterarie si evolvano come gli organismi viventi. È un assunto che coniuga l'allora vigente hegelismo appreso specialmente dal filosofo abruzzese Angelo Camillo De Meis con l'evoluzionismo darwiniano e con l'estetica desanctisiana. C'è, in nuce, un'idea di teatro che si svilupperà anni dopo come sbocco naturale della narrativa, banco di prova di quel progetto verista che in nome della semplicità avrebbe incrociato il percorso dei grandi maestri europei, sulla via che da Antoine conduce a Stanislavskij. E sembra disegnarsi già chiaro nella mente di Capuana il doppio rischio di un teatro fondato sul binomio arte-vita: da un lato la tentazione di accentuare la pittoricità del reale (la coltellata e il morso all'orecchio che tanto appassioneranno il pubblico della Cavalleria rusticana), dall'altro, il pericolo che il drammaturgo diventi l'arido fotografo dei tempi presenti: "La fotografia! Ecco il teatro moderno. (
) Talora la vita senza l'arte, e più spesso l'arte senza la vita!" (Il teatro francese nel 1866, tomo II). Antonella Di Nallo
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