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Tutta la vicenda francese, negli anni a cavallo dell'Ottantanove, è caratterizzata dal contrapporsi di due atteggiamenti profondamente diversi di fronte alla politica: il primo adotta un punto di vista astratto, di vertice, centralistico; il secondo sceglie di partire dal concreto, dalle realtà locali, dalla periferia. Due modi di sostenere e avversare le riforme; due modi di entrare in rivoluzione; due modi di combatterla, di difenderla o di perderla. Se il centralismo è stato descritto da Tocqueville in avanti come il vero demone del pensiero politico francese, non è possibile ignorare tutta quella sequenza di posizioni anticentralistiche - dal legittimismo particolarista, al costituzionalismo monarchico provincialista, al federalismo repubblicano, al localismo cordigliero o ultrarivoluzionario - che hanno segnato, negli anni a cavallo della Rivoluzione, l'altro versante, sconfitto e perciò dimenticato, della cultura e della pratica politica.In effetti, l'atteggiamento anticentralistico attraversa gli opposti campi, e si insinua nelle file dei più accaniti conservatori come dei rivoluzionari più radicali: esso sta a testimoniare il disfacimento irreversibile dell'antico regime, e più in generale il fallimento complessivo della politica, intesa come mediazione tra gli interessi e la ricerca della soluzione possibile. La risposta è l'antipolitica, la ricerca delle aggregazioni «naturali», il tentativo di rifondare la legittimità, il bisogno di esprimere direttamente la società civile.L'indagine sulla politica nelle fasi di disfacimento dei regimi stimola mille possibili analogie con la situazione presente. Ma l'autore si tiene ancorato al più rigoroso spirito di ricostruzione storica; e la Rivoluzione francese offre - insospettabilmente - un terreno fertilissimo per nuove, originali ricerche e prospettive d'analisi.
scheda di Bongiovanni, B., L'Indice 1993, n. 6
In principio vi fu la riscoperta della continuità amministrativa. Così Furet e Richet nel 1965, riproponendo Tocqueville a fianco dell'allora fiorentissima 'longue durée', riattivarono il dibattito sulla rivoluzione francese. Nella continuità, tuttavia, si annidava l'esplosione, nel 1793, del 'dérapage' politico e giacobino. Come spiegarlo? Furet, nel 1978, individuava nella rivoluzione politica, come Talmon venticinque anni prima, il frutto genealogico e intellettuale del determinismo delle idee. Successivamente, lo stesso Furet, immergendosi nuovamente in una lunga durata meno onniesplicativa di un tempo, restava di fatto afasico, ancora una volta insieme a Tocqueville, davanti all'enigmatica radicalità del 1789 e all'irruzione della rivoluzione. Di qui parte il libro di Paolo Viola, dalla necessità, onde superare l'estatica contemplazione dell'evento rivoluzionario , di studiare innanzitutto la catastrofe politica dell'Antico Regime, logorato dalla battaglia dei giudici che opponevano la legalità conservatrice alla sovranità e dal lavorio politico-intellettuale degli eredi dei Lumi che invocavano una ormai introvabile volontà sovrana. Risulta così evidente, secondo Viola, il fallimento della politica e il diffondersi di una protesta antipolitica. L'Antico Regime parrebbe dunque non essere stato assassinato. Sarebbe morto per proprio conto. Il trono è rimasto vuoto, per riprendere il tema del precedente studio di Viola (Einaudi, 1989). Nel declino e nell'implosione della politica sono emerse le antiche libertà care a Tocqueville, le federazioni, le alleanze. Per una brevissima stagione, contrassegnata dal primato della società sulla politica, l'organizzazione della resistenza locale ha coesistito con la sintesi sacrale unitaria, la federazione con l'unanimità. La quadratura del cerchio non sarà poi più possibile.
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