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recensione di Vitale, E., L'Indice 1996, n. 5
Danilo Zolo si propone di stilare il certificato di morte del pacifismo istituzionale e della sua più compiuta espressione storica, l'Onu. È forse persino ozioso ricordare quanto i processi storici cui stiamo assistendo soccorrano questa tesi; per non dire di quanti fatti specifici, dalla guerra del Golfo alla Somalia, dal Ruanda alla Bosnia, sembrino confermare il fallimento dell'Onu e delle istituzioni che ne formano il corollario proprio nel momento in cui, usciti dalla logica bipolare, avrebbero dovuto dare prova di essere veramente il terzo super partes nelle relazioni tra gli stati. Ma questo ruolo gli è stato impedito dalla sua stessa architettura istituzionale, che non rispetta le procedure elementari di una decisione democratica e che è stata concepita come funzionale alla conservazione di uno status quo internazionale profondamente iniquo.Sotto questo profilo, non ha forse torto Zolo a concludere che queste Nazioni Unite, in quanto per molti versi assimilabili al modello della Santa Alleanza, non sono riformabili.
Il discorso diventa più complesso e articolato quando la confutazione venga estesa a tutte le forme di pacifismo istituzionale (di cui pure in "Cosmopolis" si traccia una mappa particolareggiata, così come del pacifismo morale). Gli argomenti storico-empirici sono validi quando si tratti di confutare un certo ottimismo cosmopolitico di area anglosassone che a volte si spinge fino ad assumere le vesti di sostegno teorico alla politica estera statunitense: ma non pecca di fairness chi tenti di ridurre tutto il pacifismo istituzionale ai western globalists e ai progetti di global security, di nuovo ordine mondiale? Zolo ritiene invece che il pacifismo istituzionale, qualunque forma e cautela assuma, rimandi al modello della Santa Alleanza, ovvero a un progetto in realtà egemonico e violento, o sia del tutto irrealistico.
Le sue obiezioni fondamentali sono tre: 1) metodologicamente, il pacifismo istituzionale si fonda sul presupposto della domestic analogy, come se il modello del contrattualismo moderno potesse veramente applicarsi alle relazioni tra gli stati concepiti come magni homines; 2) politicamente, la ricerca di una pace stabile e universale come valore supremo da perseguire collettivamente "tende a coincidere con il congelamento della mappa geopolitica, economica e militare", per cui la pace non si oppone solo alla guerra, ma implicitamente anche al cambiamento e allo sviluppo sociale: 3) filosoficamente, manca un'adeguata riflessione sulla natura umana: non sarà che "l'aggressività e la guerra, come hanno sostenuto alcuni esponenti dell'etologia umana, presentano nell'homo sapiens radici biologiche così profonde da dover essere considerate del tutto naturali e, al limite, evolutivamente funzionali?".
Ho l'impressione che applicare queste considerazioni a tutto il pacifismo istituzionale sia una forzatura.Laddove si pensi a un'assise planetaria democraticamente eletta secondo il principio "una testa, un voto", ovvero a una sorta di cittadinanza mondiale, si sfugge alla domestic analogy così come all'accusa di ipostatizzazione della mappa geopolitica.Resta l'obiezione di un fatale scivolamento nell'utopia.Ma, in fondo, tutto ciò che non è ancora è utopia: non verremmo forse presi per pazzi visionari se per avventura ci trovassimo a raccontare il nostro mondo alla corte di Luigi XIV?
Peraltro, già Kant, nume tutelare del pacifismo istituzionale, era ben conscio delle contraddizioni interne al suo stesso progetto, così come, nelle sue opere di filosofia della storia, della naturalità e financo della funzione progressiva degli antagonismi e della guerra.
Ma immaginiamo che il pacifismo istituzionale sia veramente un vicolo cieco. Seguendo la "via d'uscita" di Zolo scopriremo che, paradossalmente, i suoi argomenti contro il pacifismo istituzionale valgono a maggior ragione contro il suo "pacifismo debole". La pars construens di "Cosmopolis" è fondata sugli studi di etologia, e in particolare di etologia della guerra, di autori quali Lorenz, Eibl-Eibesfeldt e de Waal. La guerra sarebbe spiegabile come un'espressione di aggressività intraspecifica resa particolarmente cruenta dal fenomeno noto come pseudospecismo: gli uomini affrontano i loro simili come se appartenessero a specie biologicamente distinte.Il mancato riconoscimento dipenderebbe dalle differenze culturali, così profonde da non far scattare, in certe condizioni, il naturale freno inibitorio all'uccisione di conspecifici.Tentare di abolire le guerre sarebbe quindi come tentare di eliminare qualcosa di connaturato e funzionale all'uomo.Quanto si può fare è controllare l'aggressività e la violenza dei conflitti, riducendone attraverso accordi locali e parziali gli aspetti più distruttivi.
Forse queste tesi non sono incontestabili in etologia e forse, se plausibili, non sono trasferibili di peso alle relazioni internazionali. Ma come non rilevare almeno la più classica fallacia naturalistica consistente nell'affermare l'aggressività come viscerale pulsione umana facendo al tempo stesso appello alla ragione normativa per depotenziarne artificialmente gli effetti?Da queste premesse muove comunque il "pacifismo debole", il cui significato ideale è affidato da Zolo a due metafore: la capanna senza pareti dell'isola di Bali, da cui i contendenti non possono uscire fino a che non hanno trovato un accordo sotto l'occhio vigile degli altri abitanti del villaggio, e le mille esili catene con cui i lillipuziani immobilizzano al suolo il "gigante" Gulliver. Ma che cosa succede se sotto la capanna a negoziare sono due superpotenze, e tocca ai deboli controllare? Non è questo un uso ben più spregiudicato della domestic analogy? Non è forse troppo facile ridurre il problema della guerra tra stati a quello dell'aggressività interindividuale?
Pur con tutte le sue contraddizioni e le sue spinte utopiche, nella sua forma democratica il pacifismo istituzionale è, a mio giudizio, ancora una via più praticabile di quella indicata da Zolo.Fuor di metafora, quest'ultima non va oltre la prospettazione di istituzioni internazionali, nazionali e regionali "specializzate nella comunicazione interculturale", capaci di valorizzare le identità etnico-culturali e di opporsi "ai meccanismi ancestrali della pseudospeciazione", e l'invito alla comunità internazionale a seguire il modello della capanna, limitando l'intervento a "certe forme più o meno selettive di embargo delle armi e delle risorse belliche e di interposizione consensuale di forze di pace". Per tornare a Swift, occorre ricordare come prosegue la riflessione di Lemuel Gulliver dopo la sua cattura: "Riguardo agli abitanti, avevo buone ragioni di ritenermi in grado di fronteggiare qualunque più grosso esercito mi portassero contro, solo che fossero tutti della stessa dimensione di colui che avevo sbirciato". La debolezza del pacifismo debole, in fondo, è tutta qui.
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