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Storia molto particolare. Da gustare lentamente come un buon vino.
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recensione di Concilio, C., L'Indice 1998, n. 8
È un mondo di uomini, spesso, quello dei romanzi di David Malouf, più spesso, di silenzi. Desta stupore, dunque, questo assoluto quasi famelico bisogno di parole che trapunta la notte di un gruppo di uomini impegnati a sorvegliare un fuggiasco prima della sua impiccagione. Un'arguzia di parole per sconfiggere la morte: viene alla mente Shéhérazade. La verità è che le parole devono colmare i vuoti dell'inferno australiano. "Era di questo che avrebbe voluto parlare": di come il loro giovane compagno "si era trasformato in qualcosa d'inimmaginabile: un uomo con una lancia nel collo, in ginocchio sulla terra brulla, che gorgogliava (...) aveva visto la sua anima venir fuori assieme alla lancia". Era di questo che avrebbe voluto parlare. Di un ragazzo morto per mano degli aborigeni. "Posso chiederle qualcos'altro? (...) Pensavo solo che siccome lei è irlandese, non le faceva niente se le facevo qualche domanda", così inizia il dialogo - fatto di domande e mezze risposte, interrotto dal sonno, da sogni tormentati, lamenti, confessioni, ricordi del passato - tra il condannato, Daniel Carney, e l'ufficiale venuto a vegliare sulla sua ultima notte, Michael Adair. Uomini che per addormentarsi cercano nella memoria le vecchie ballate irlandesi ("Intende se so cantarla?" "Sì, magari ci calma. Poi potremmo cercare di dormire un po'"); uomini che ammazzano il tempo della notte con storie di fantasmi: "Dai continua, Garrety, che è successo dopo? Che cosa hai fatto? (...) I giovani erano tornati a raccontarsi delle storie, e con ciò a una versione più contemplativa di sé".
Così come la notte si dissolve nei molti rivoli narrativi, dentro e fuori la capanna dove giace il condannato, allo stesso modo la storia della mancata impiccagione di Carney sfocia nel mar delle leggende, in cui il "bushranger", il deportato evaso, personaggio mitico dell'immaginario australiano, si confonde con la figura storica dell'irlandese Dolan, John Donohoe (1806-1830), famoso brigante del Nuovo Galles del Sud. E mentre la leggenda del fuggiasco si stempera in quell'altra ossessione tutta australiana dell'esistenza di una zona d'ombra controllata da briganti e fuorilegge, Adair ammira di lontano l'Hyperion, la nave che lo riporterà a casa, in Irlanda; come Marlow, indietro dalla donna amata, di un tempo, il cui amato Kurtz (Fergus) è morto nell'inferno australiano. Ma, come Ishmael, Adair si prende del tempo prima di salpare, girovagando tra le locande, i negozi di barbieri e lustrascarpe, i negozi di coloniali, raccogliendo e aggiungendo particolari alla leggenda che lo riguarda; affamato di quelle parole che egli stesso ha generato, fermandosi da un fornaio per acquistare una pagnotta: "La dolcezza salata della crosta simile a una benedizione (...) [gli] rinfresca la bocca come fanno le parole di ogni giorno".
Le ultime, dense pagine del romanzo evocano Conrad e Melville, ma anche Joyce merita una menzione, senza con ciò voler fare di Malouf il Joyce australiano. Piuttosto Malouf è l'idea ribaltata di Joyce: leggendario là dove Joyce era epico; cristallino là dove linguaggio e stile in Joyce si fanno opachi. L'Irlanda degli antipodi è una colonia ombra di deportati datisi alla macchia; il tempo dilatato è quello di una notte nella vita di un uomo, Adair/O'Dare, che dall'Irlanda parte per la sua "quest" negli inferi antipodei, per tornare alla sua Penelope irlandese. Perché, sì, le due figure femminili del romanzo, Mama Aimé e la contessa Virgilia, sono personaggi dall'aura mitica. Moderno e sobriamente postmoderno, Malouf, voce di spicco della letteratura australiana, mescolando realtà storica e finzione ha così restituito luce a una leggenda di frontiera del secolo scorso, la cui poesia trova eguali solo nell'altrettanto leggendaria, quanto apocrifa, ricostruzione del West di" Billy the Kid", del canadese Michael Ondaatje, o nelle atmosfere di quel bellissimo film che è "Dead Man* di Jim Jarmusch.
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