Fino a un secolo fa, la dinamica sociale sembrava saldamente vincolata alle norme istituite dagli Stati e agli obblighi contrattuali che garantivano il funzionamento dei mercati. Eppure già allora, al di sotto dei meccanismi normativi dello Stato e del mercato, la vita collettiva era consegnata a un genere di accordi molto più informali, esenti da obblighi e promesse, che David Hume designava col termine di convenzioni, paragonandoli all’intesa spontanea che nasce tra due rematori sulla stessa barca, portati a imitare ciascuno il ritmo dell’altro. A lungo trascurate dai grandi meccanismi istituzionali, le dinamiche emulative che danno forma alle convenzioni sono gradualmente divenute, negli ultimi cento anni, il bersaglio principale di tecniche sempre più sofisticate di manipolazione e controllo, seduzione e governo, che hanno finito per creare una rete di legami sempre più fitti e opachi tra la politica e l’economia. Norme e contratti, in questa zona grigia, perdono la loro forza vincolante, lasciando trapelare una specie di normalità senza norme. Mentre le grandi istituzioni diventano così sempre più fragili e porose, al loro interno ha preso corpo un ordine sostitutivo, alimentato dal continuo scambio tra potere e valore. La difficoltà è che le convenzioni sono intrinsecamente ambivalenti: sempre in bilico tra la festa e la guerra, possono veicolare tanto l’accordo quanto il conflitto, tanto la stabilità quanto la crisi. Nell’universo della convenzionalità domina perciò l’insicurezza, non c’è limite al possibile e la normalità convive con lo spettro del tracollo di ogni ordine civile. Su un terreno così insidioso, le forze che aspirano a un nuovo equilibrio globale devono misurarsi con una rete di centri di dominio cresciuti alla frontiera tra politica ed economia, pronti a rendere cronica l’insicurezza pur di mantenere intatta la propria egemonia. La posta in palio, nello scontro, è il governo del mondo. E l’esito non è mai stato tanto incerto.
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