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Il lavoro postumo qui pubblicato – si tratta di una tesi di laurea in scienze politiche il cui titolo recita sommessamente Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del ’600 italiano – ci permette di formulare un’ipotesi inedita sulla genesi e i caratteri della scrittura manganelliana. Inaspettatamente, gli autori di cui si tratta non sono quelli della tradizione machiavelliana, cui si è rivolta di preferenza nel dopoguerra l’attenzione degli storici, soprattutto in Italia, ma dei teorici antimachiavellici della Ragion di Stato. Se per Machiavelli il problema era di intendere e rafforzare il potere del principe, per i teorici della Ragion di Stato, da Botero a Zuccolo, da Paruta a Settala, il problema è di consolidare e comprendere lo Stato stesso. Nelle loro opere lo Stato acquista per la prima volta un’esistenza e una razionalità autonoma, e mentre la questione della legittimità giuridica del potere sovrano passa in secondo piano, sempre più centrale si fa l’analisi delle tecnologie attraverso cui lo stato si conserva e riesce a integrare con ogni mezzo gli individui nella propria razionalità, prefigurando i grandi organismi totalizzanti di amministrazione e governo che ci sono oggi familiari. Questa autonomia e invasività della politica barocca è il filo segreto che unisce questo saggio giovanile alle opere estreme, il ventitreenne, ma non ingenuo politologo allo stravolto veggente della fine.La politica è qui per lo studente quello che la letteratura sarà per lo scrittore: una pura intensità insostanziale ma coestensiva all’universo; come la letteratura essa “non ha luogo, ma penetra ovunque, anche nella preziosa forma dell’assenza”.
recensioni di Papetti, V. L'Indice del 2000, n. 02
Della macchina da scrivere Giorgio Manganelli ha celebrato la duplice natura di cembalo e mitragliatrice, e all'anima del dattilografo ha riconosciuto una consanguineità nervosa con "tutti coloro che vivono di e per una tastiera". Quindi non si sarà adontato alla vista di tante disletture che nel 1945 un'anonima dattilografa di Pavia disseminò nella sua tesi di laurea. Né il Manganelli ventitreenne, innamoratissimo di Faustina - la futura moglie -, poeta agli esordi, né il professor Vittorio Beonio Brocchieri, docente di storia delle dottrine politiche e suo relatore, le corressero. (E il curatore di oggi, tratto in inganno, forse abbacinato, da tanta noncuranza, non interviene sul testo). Manganelli speditamente completò con il massimo dei voti una carriera tutta di trenta e lode. Si era iscritto il 4 novembre del 1940 e si laureò il 9 novembre del '45. La breve ma drammatica esperienza partigiana - fu messo al muro dai tedeschi e solo la sua giovane età lo salvò - era già alle spalle, sommersa dall'onda euforica del futuro. Ma non del tutto. Anche se gli anni in cui la politica era entrata tragicamente nella vita e nella morte della gente erano finiti, incombeva il nuovo volto del Leviatano. Caduto il nefasto Principe, Stato e individui sarebbero tornati a confrontarsi in termini incruenti, ma ancora imprevedibili. Quel rapporto è cruciale al destino dei soggetti, irrinunciabile e intimo. Il giovane Manganelli scrive: "la politica è anche nelle sue forme più schematiche parte del mondo interiore dell'uomo, e di infinite interiorità in reciproco rapporto". Prendendo a prestito l'immagine da Bracciolini dirà che gli "stomachi cupi" cercano di occultare le mani insanguinate "con guanti gradevolmente odorosi di ambra". Barocco, ragion di Stato, corpi caravaggeschi: Manganelli trova il suo nido immaginifico nel Seicento. Non aggiunge nulla di nuovo su quei teorici già studiati da Friedrich Meinecke - Boccalini, Botero, Campanella, Paruta, Sarpi, Settala, Strada, Zuccolo -, ma li ha scelti come lo sfondo immutabile dell'antropologia politica italiana. Il futuro autore dell'Orfano sannita si esercita nell'uso dell'aggettivo illusionistico che apre a scorci improvvisi nella frase: "In Niccolò Machiavelli questa sotterranea percezione [della politica come fatto autonomo] nascente dalla fiduciosa anarchia di un mondo avverso alla rigidità del dogma, questa morale immediata e ferina pur nella sua elettissima formulazione, giunge a una lucidità che si identifica con la scoperta". Si possono trovare varie tessere del suo mosaico a venire: "pareti concettuali", "arsura mistica", "favola immaginosa e trasparente", "un buio di labirintica interiorità", "la forma svagata e fantasiosa della cicalata", "la ludicità precisa e circoscritta di una espressione numerica", "una tacita diserzione dalla vita sociale".
Da adolescente aveva appreso nel suo intenso rapporto con la madre Amelia, grande lettrice di Edouard Schuré, sensitiva e poetessa, ad abitare contemporaneamente le fedi e le superstizioni, a ritenere il poeta uno sciamano, a stilizzare la natura negli elementi primari: aria, acqua, terra, fuoco. L'Università di Pavia e Scienze politiche erano state preferite alla Normale di Pisa e a Lettere proprio per stare vicino alla madre. La scrittura così alacre e invadente della tesi sembrerebbe un virile allontanamento dal mondo materno. Ma Giorgio Agamben, nella sua brillante introduzione, con uno straordinario volo d'angelo la collega alla Palude, appunto il più definitivo, e maternale dei libri di Manganelli. Scrive Agamben: "Come ogni grande visionario, Manganelli vede e contempla innanzitutto la lingua, ma come l'essere è sempre l'essere della lingua, così la lingua è, per lui, sempre la lingua dell'essere. E questa è la radice barocca della sua mens, poiché barocco è appunto quell'universo in cui essere e lingua, natura e storia, sonno e veglia, materia profana e diceria teologica sono implicate in un giro di pieghe che, come quelle che increspano la veste estatica della beata Albertoni, non è possibile svolgere né dirimere".
Nello stesso periodo, Manganelli scrive anche poesie mitopoietiche, simboliste forse, non "moderne" a suo parere. Ed è in tale rapporto con Vittorio Beonio Brocchieri che le sottopone al suo giudizio. Poesie che poi Manganelli dimenticò e non propose mai né a editori né ad amici, ma depositò in quella valigia che conteneva la sua autobiografia oggettuale, insieme a guanti spaiati, seni di cera e fotografie di donne sperse tra volti anonimi. Secondo Andrea Cortellessa (in "Poesia", 1999, n.130) sono "testi di marmorea e volenterosa fissità", occasioni di "connubio tra sacralità e profanazione". Interessano anche perché costituiscono i primi "stemmi" di Manganelli a uscire in campo. Non continuità e uniformità esibisce la sua fiction, ma il ritorno, impetuoso e rigido, di quegli stessi "stemmi" nelle diverse stagioni della scrittura: gli inferi metamorfici, i corpi decidui in transito da se stessi, la vita non più o non ancora vita, l'insinuante doppio vertiginoso... Scribacchia ancora Manganelli, ormai orfano sannita, sul vecchio tema dello Stato e del suo ius angariae: "non negheranno i cittadini che l'esistenza stessa di consuetudini, come che sia vessatorie, è arra e pegno di continuità, di ordine, infine di garantita ed economica gestione". Nella bella processione sfila anche lo "stemma" della satira con i colori di Swift, Sterne, Goldsmith. Da loro Manganelli prese l'idea delle sue cronachette gelide ma intime e corrosive dell'Italietta del dopoguerra.
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