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Mi giunge come regalo: è un fiore reciso da un cassetto, una scoperta. E dietro ogni verso l'intuizione di un travaglio, un canto di attimi solitari ad abbracciare la folla dei tanti passati in cui l'inchiostro si perde, si confonde, si ritrova: "Parlo ancora con mio padre./ A volte siamo in fondo all’oceano/ e lui è distratto dalla mancanza d’aria./ Difficile restare in argomento se sei preso/ dal mutare l’acqua in ossigeno,/ o dal provarci. Difficile anche, laggiù,/ udirsi con chiarezza sufficiente...". Mai tentare di stirare gli orli cocciuti della perdita, mai tentare di comprendere i pazzi avvisi di un tremore, mai dare confidenza alla spina se prima non si è dato del Tu ad ogni rosa sulla terra. Corrosi e intatti nel vento di un sentire ben guidato, lontananze di regime e durezza sofferta sulla pelle, quello che si può pensare è che questi versi pecchino di lirismo, di armonicità persuasiva, mentre siamo soltanto fra le stanze e i sentieri di una terra sorella, eco di una gola forse non semplice da accostare, ma bellissima: "Strano: il mondo scorre dentro un velo per anni, poi colma sacro gli occhi, ti arresta/ come se un dio reclino ti avesse sussurrato". Già nel titolo sgocciolano limpide le gocce del vissuto fra i blocchi del respinto, l'abbandono oltre la restrizione, il gesto che lacera il controllo. Dediche al padre e alla madre magnifiche, e il resto una partitura che sgomita fra resti di un io che domanda e che insieme sembra sapere già, che grida per conoscere e capire e al tempo si assesta sulla soglia del risolto. Leggere i versi di Brock è insomma come carezzare le scaglie di un minerale, appuntite e seducenti, ostiche come un mistero e calde come un invito. E ricordarsi sempre che in poesia leggi e scelte sono magie talentuose nel cappello della parola. Ma anche che dentro quel cappello arde una mente, un cuore, ardono i limiti e i rintocchi di una vita. Anzi, di troppe....
Geoffrey Brock (Atlanta,1964) è docente universitario, traduttore e autore di due premiati volumi di poesia, oltreché di numerosi saggi letterari. La sua è una poesia limpida, facilmente “percorribile” e insieme autorevole, nutrita di sapienza antica e di maestria formale, come suggerisce il prefatore. Poesia descrittiva, di luoghi e di persone, che prende spunto da episodi marginali come da esperienze fondanti del passato, o da posti visitati turisticamente (un cimitero di guerra, un’antica necropoli, la spiaggia vicino a Roma, il Messico) ritrovati con nostalgia nella memoria. Ma anche da brani letti casualmente o studiati con accanimento, opere liriche, documenti storici, trattati di ornitologia, quadri famosi, sogni che si confondono con la realtà: tutto quello, insomma, che nutre la quotidianità di qualsiasi individuo, filtrato dalla coscienza emotiva e scalfibile del poeta. I ricordi, come i sogni, gli incubi, le associazioni fantastiche, sfociano in qualcos’altro che non è, o non è più, la realtà: una verità riformulata, quando i dati concreti possono rivelarsi minacciosi, nella loro appurabile spietatezza. “Parlando sommessamente, Brock è in ascolto delle ondulazioni armoniche e degli ultrasuoni che le sue voci, i suoi luoghi producono”, commenta Paolo Febbraro nella prefazione. Una voce volutamente smorzata, quella con cui il poeta americano si esprime, lontana da ogni stentorea sicurezza, persino nell’indignazione della denuncia politica, nelle rivisitazioni mitologiche, nelle ricostruzioni epiche. Il sentimento prevalente è quello della perdita, il pensiero accorato e pungente riguardo a ciò che non è più recuperabile: l’infanzia, un amore giovane, una casa abbandonata. “Il passato – ecco dove troverai il tuo paradiso. // … Qualunque cosa ora ti sia di fronte / non sarà stato un paradiso finché non è perduto”.
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