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Quando si parla di scrittori russi, si sa bene dove l'immaginario va a parare, ma questo è un russo contemporaneo, quarantenne alla prima pubblicazione e usa un linguaggio articolato, al limite dell'affettato. Poi i più bravi, maturando, imparano a togliere, a perdere la fregola ostentatoria da primi della classe, restituendo l'essenza del loro talento. E allora sì che le cose funzionano a dovere. Sergej Lebedev potrebbe essere uno di questi; non gli manca nulla nel senso della profondità dei contenuti e nella sensibilità. La narrazione della Russia anni '90 permeata dagli spettri del passato, è efficacissima e coinvolgente nella resa di atmosfere e personaggi. «Mi fu chiara la scelta di deportare nella taiga e nella tundra: in questo modo le persone venivano estirpate dalla comunità, estromesse dalla Storia; la loro morte non avveniva nella Storia, ma nella geografia.» Se in futuro si toglierà qualche zavorra stilistica, potrebbe diventare ancora più attraente, ed entrare nel tunnel della particolarità e originalità dell'interessante Keller Editore potrebbe diventare una tentazione irresistibile.
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La parola ci salverà, Lebedev contro il silenzio dei gulag
Il romanzo Il confine dell’oblio di Sergej Lebedev (360 pagine, 18,50 euro), tradotto da Rosa Mauro edito da Keller, offre alla storia occidentale un contributo destinato a permanere nella memoria collettiva: il recupero del passato insondabile del regime sovietico, dei gulag e delle efferatezze compiute nell’estremo nord della Siberia.
È un racconto che scandaglia gli episodi sottaciuti del regime e scava nell’intimo di quell’umanità che, sopravvissuta al massacro, deve ora trovare il modo per rielaborare il proprio passato e convivere con una memoria che non può più essere negata. Senza dubbio la narrazione rappresenta per l’autore il tentativo di superare il silenzio ostentato delle vecchie generazioni così come l’incomprensione delle nuove generazioni dinanzi alle interruzioni improvvise dei discorsi, agli accenni velati, alle persone scomparse. «Ci troviamo in una sorta di mitologia greca» afferma Lebedev, «dove un regno di vivi deve fare i conti con un regno dei morti, quello della Siberia più a nord». E davvero si tratta di un’Odissea, di un viaggio che prosegue a ritroso in un mondo di ombre il cui scopo è dare voce a ricordi altrimenti destinati all’oblio.
Alla negazione e all’oblio l’autore oppone uno straordinario lavoro di ricerca e di analisi interiore, ostacolato a più riprese dai responsabili della sicurezza statale, che recupera la dimensione più sfuggente ed effimera della memoria e della coscienza: «quella del ricordo che non si vuole ricordare, del ricordo del ricordo, per cui il passato si allontana, rimpicciolisce come un oggetto riflesso in due specchi posti l’uno di fronte all’altro». La storia del romanzo, afferma Lebedev, non è la storia di un giovane sulle tracce della figura enigmatica di Nonno Due, un anziano vicino di cui il protagonista intuisce il passato inconfessabile: o meglio, non è solo quella. Il confine dell’oblio è un ritratto del mondo europeo del XX secolo dove la vittima e il carnefice convivono sul palco delle grandi guerre.
«…gli uomini non morivano, ma cessavano di esistere per il presente, che continuava anche senza di loro, e ogni nuovo attimo allontanava i precedenti, quelli nei quali quella gente ancora esisteva».
Discutendo del nucleo centrale dell’opera l’autore pronuncia una frase inaspettata e quanto mai necessaria: «La figura del carnefice è fondamentale». Perché se il male «immenso, universale» non trova un volto, e al posto di quel volto subentra un vuoto che attrae il passato nel buco nero dell’oblio, significa che la grande tragedia non è mai
esistita e mai potrà trovare coscienza nei sopravvissuti. In questo senso il libro, un esempio di letteratura documentale sapientemente arricchita con i tratti tipici di un memoir, è la storia di una caccia e del suo tentativo di attribuire tratti visivi, fisici e percepibili ai responsabili di quei delitti. Una storia, dunque, un romanzo, e non un’inchiesta o un reportage giornalistico: «Mentre il reportage parla sempre di qualcun altro al di fuori di noi, quando scriviamo un romanzo parliamo sempre un po’ di noi».
C’è infatti una parte autobiografica nel racconto di questo ragazzo che decide di diventare geologo e compiere lunghi viaggi nelle terre abbandonate nel nord della Siberia, affrontando una natura meravigliosa e ostile nelle descrizioni mozzafiato della tundra e della taiga che Lebedev regala ai suoi lettori. Autobiografico è anche quel terribile sospetto che non abbandonerà mai il protagonista durante la sua lunga ricerca: l’autore svela infatti di aver scoperto, per caso, come spesso accade agli eventi più importanti della nostra vita, che un parente della sua famiglia, da lui da sempre considerata vittima del regime sovietico, aveva rivestito il ruolo di direttore di un gulag e che a causa del proprio ufficio si era reso responsabile della morte di centinaia, se non migliaia, di persone tra gli anni ’30 e ’40 del secolo scorso.
«Stava nevicando. Il ciclone aveva disperso le goccioline di nebbia, dietro la burrasca in arrivo, ancora silenziosa e trasparente, si scorgevano le rovine di un lager; un raggio squarciò le nuvole, illuminò quei resti che sembravano inghiottire come un turbine il freddo bagliore del sole nevoso. In questo spazio di aberrazione e perdita ogni umanità è inoperante».
«Il mio viaggio è concluso, è ora di affrontare il ritorno: nella parola».
La ricerca storica assume nel romanzo di Lebedev i connotati di un viaggio, un’esperienza che prima di tutto è un viaggio nella parola e attraverso il linguaggio; come un lume, la parola illumina le ombre di un passato sepolto nella memoria di chi non ha voce e di chi, invece, ha deciso di rimanere in silenzio. Passo dopo passo una scrittura elegante e magistrale, a tratti analitica nell’indagare la lenta contaminazione del ricordo, dal tentativo di mistificazione fino alla sua totale rimozione, riporta coraggiosamente alla luce destini estromessi dalla storia umana. Non si tratta di realismo o di corrispondenza del linguaggio alla realtà: la dimensione di cui Lebedev si fa interprete è informe, senza corpo o sostanza, condivisa non solo dai vivi ma anche dai morti il cui silenzio risuona nell’anima dei sopravvissuti. «Uno dei problemi della lingua è che quando si parla
del passato c’è sempre una terza parte, un partecipante che bisogna tenere presente: il silenzio dei morti».
«Un essere privo di favella si trova unicamente al passivo, nell’indissolubile nesso di cause ed effetti. Il linguaggio può condurre l’uomo oltre i confini di questo nesso, la parola gli consente di non essere materia rassegnata che tutto accetta, a tutto si sottomette. Ma lì le persone e il luogo erano ridotti alla voce passiva, e non potevano cambiare».
Il confine dell’oblio di Sergej Lebedev è una testimonianza storica, drammatica ed estremamente coinvolgente di uno degli episodi più sanguinosi della storia e ci ricorda che la dolorosa memoria di quanto accaduto, l’accettazione profonda della nostra dimensione esistenziale, della nostra singolare esperienza chiamata a convivere con il dramma mondiale, rappresenta un atto doveroso: il venir meno del ricordo, e con esso la storia che tale ricordo tramanda, equivale a negarlo.
La parola, ancora una volta, ci salverà. «Fuori dalla lingua, non esisti».
Recensione di Silvia Gasparoni
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