"Alieno dalla dialettica quant'altri mai, egli carica tutta la negatività sul polo negativo, tutti i valori sulle indicazioni del polo positivo (indicazioni-progetto, indicazioni di quanto ci resta da fare)". Così Italo Calvino descriveva la letteratura di Elio Vittorini nel 1959, quando lo scrittore siciliano aveva già concluso (per l'essenziale) la sua parabola creativa. La diagnosi corrisponde perfettamente alla carica utopica più che filosofica, da "eremita moderno", della narrativa vittoriniana: progetto rivolto a costruire spazi di speranza, liberi da quello che in Conversazione in Sicilia si chiama "mondo offeso", mondo della storia e del male e della violenza dell'uomo sull'uomo. Il fascino di questa scrittura, oggi un po' dimenticata, è allora l'immaginazione del futuro sotto il segno di Don Chisciotte e Robinson Crusoe: un'immaginazione spaziale prima ancora che sociale, sogno di paesaggi e città che sono sì proiezione dei più intimi ricordi (la Sicilia o la Sardegna, declinate appunto "come un'infanzia"), ma che si trasformano a ogni istante in "città invisibili", in non-luoghi dove tutto è possibile e dove l'estrema precisione dei dettagli (il provocatorio naturalismo) è una paradossale garanzia di onirismo. Questo "incandescente stupore primitivo" attraversa felicemente l'opera di Vittorini fino alla prima stesura delle Donne di Messina nel 1949. La riscrittura di questo romanzo nel 1956, capovolgendone il significato e passando da un progetto utopico alla malinconica storia di un compromesso, indica veramente una rinuncia alla speranza e insieme l'addio dell'autore all'invenzione: amaro emblema della "disillusione del dopoguerra", che neppure l'ultima opera incompiuta (Le città del mondo) riuscirà a modificare. Rinaldo Rinaldi
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