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È un romanzo no global ante litteram, questo libro di Sonallah Ibrahim (1937), ex enfant terrible della narrativa egiziana, che ha ricevuto nell'ottobre scorso al Cairo un premio che lo ha consacrato migliore scrittore arabo contemporaneo. Premio che ha, peraltro, platealmente rifiutato per "incompatibilità di carattere" con il suo governo, definito connivente con le superpotenze in materia di politica estera e totalmente sprovvisto di credibilità a livello interno. No global e di incredibile attualità, questa storia di un intellettuale egiziano che si presenta davanti a una sorta di tribunale non arabo che deve decidere se gli permetterà o meno di uscire dall'anonimato in cui si dibatte. Una chiara denuncia dello strapotere delle multinazionali, del sistema capitalistico mondiale e dell'incapacità di ribellione dei "subalterni", narrata facendo ampio ricorso all'inesausta vena ironica del suo autore, un'arma congeniale alla sua seppur disillusa scrittura. Ironia che ritorna in tutte le sue opere, dal bellissimo Dhat (nome proprio femminile) al recentissimo Amerikanly (gioco di parole su Amri Kan li, vale a dire circa "una volta erano fatti miei"), testi illuminanti sull'Egitto di oggi che ci auguriamo vengano presto tradotti anche in italiano. Già nel 1966, Sonallah Ibrahim e alcuni colleghi scrivevano nella prefazione del suo primo romanzo: "Se il racconto che hai tra le mani non ti piace, non è colpa nostra, ma del clima culturale nel quale viviamo...". La commissione era già apparso in una diversa traduzione italiana, ormai introvabile, per la catanese De Martinis.
Elisabetta Bartuli
Otto racconti scritti da altrettanti scrittori egiziani pubblicati nell'aprile del 1969 sulla rivista d'avanguardia letteraria cairota "Galleria 68". A dispetto dei loro trentacinque anni, pur se ben portati, è ancora possibile comprendere quanto dirompente sia stato il loro impatto nel tradizionalista universo culturale arabo dell'epoca. Ognuno a suo modo, i racconti si appropriano delle teorizzazioni hemingwayane contrapponendole alla fluidità araba classica, scelgono di dar voce a una soggettività pensante e in aperta rivolta contro l'ordine costituito, infrangono regole sociali comunemente accettate e chiamano al rinnovamento in chiave di giustizia sociale e ripensamento culturale. Nonostante un'apparente comunità di intenti, però, la generazione del Sessantotto egiziano non va affratellata al movimento sessantottino occidentale, poiché altre e di diversa matrice sono le cause scatenanti della sua rivoluzione culturale, prima fra tutte la sconfitta cocente con cui si conclude il conflitto arabo-israeliano del 1967. Eppure resta profonda l'impressione che i suoi sommovimenti conducano ad analoghe posizioni. Ma si sa, il fatto che esistano altre vie, rispetto al qui e ora dell'Occidente, non dovrebbe sorprendere chi frequenta la geografia intesa anche come fatto culturale. La produzione letteraria degli scrittori presenti in Fuori dagli argini non si è esaurita, anzi, con il trascorrere dei decenni, è andata affinandosi. Alcuni dei loro romanzi sono diventati dei classici delle lettere arabe contemporanee e alcuni autori sono disponibili anche in italiano: Yahya al-Taher Abdallah (Mesogea), Muhammad Busati (Sperling & Kupfler e Jouvence), Sulayman Fayyad (Sellerio), Gamal Ghitani (Giunti ed Edizioni Lavoro) e Baha Taher (Jouvence).
(E.B.)
'Abd al-Hamid Benhaduga (1925-1996), con Tahar Wattar (1936), veniva citato, fino a pochi anni or sono, come il solo scrittore algerino ad aver sempre e solo scritto in arabo. Proprio per questo, il suo nome rispetto a quelli di altri narratori che hanno scelto invece di esprimersi in francese, è solitamente ignorato in Occidente. A torto. Perché la sua è da sempre una delle più autorevoli, liriche ma anche genuine voci che dipingono l'Algeria contemporanea nel suo divenire. La scrittura di Benhaduga mette in scena un amore talmente profondo per il suo paese da diventare ferocemente critico. Esattamente come avviene nella protagonista di questo intenso e non riassumibile romanzo polifonico: una "grande vecchia", madre di molti figli nati da molti padri, che ricostruisce la storia della sua vita e la fa diventare la storia dell'Algeria intera. "Rendi immortale la mia storia", chiede la donna al narratore. Il narratore accetta e la dipinge in tutto lo splendore della sua forza e nella sua debolezza, accompagnandola - e accompagnandoci - dai paesini di montagna alla città, dalla rivoluzione ai deludenti risultati della politica postindipendenza. Grazie a una traduzione attenta e armonica, rispettosa come poche sia del testo originale che della lingua di arrivo, Domani è un altro giorno riesce a esemplificare per il lettore italiano le molte potenzialità della narrativa araba contemporanea scritta in arabo, ricca di molteplici registri stilistici, variegati ritmi narrativi e ardite organizzazioni del narrato.
(E.B.)
"La testa tra le stelle e il Mediterraneo ai miei piedi, mi sentivo un indiano dalla pelle scura e dai capelli ricci. Ero un Comancho, un Cheyenne, un Nasobucato, un Siox". Così si descrive il piccolo protagonista algerino, per la prima volta in vacanza in un campeggio a "zero stelle". Questo delizioso Camping alle porte di Algeri si fa metafora di tutto il paese. Ogni villeggiante rappresenta una delle tante varianti possibili di umanità, dal commerciante (come Keskess, "che aveva le orecchie a punta come quelle del dottor Spock"), all'emigrato di ritorno (come Kinder Bueno, il bimbo dall'accento francese e dai mille giocattoli, accessori e dolciumi), al possidente (come il colonnello, proprietario della villa accanto). Al campeggio, "quell'anno era come gli altri anni, si discuteva di campionato, della crisi degli affitti, della difficoltà dei trasporti, (...) il caro-vita, soprattutto il prezzo esorbitante delle verdure, dei vestiti, delle scarpe...". "Abbiamo fatto l'amore / in una baracca schifosa / io me ne frego per me / ma mi dispiace per te", canta la canzone raï in voga in quell'estate del 1988, poco prima che le elezioni algerine vengano vinte dal Fronte islamico di salvezza (Fis) e il paese intero si ritrovi in stato d'assedio. Abdelkader Djemaï (Orano, 1948) ha una lunga esperienza di insegnamento alle spalle e ha pubblicato, assieme ai suoi alunni, alcuni deliziosi libriccini sfortunatamente non tradotti in italiano. La sua profonda conoscenza dell'universo infantile è tutta al servizio, anche in questo breve romanzo, di una descrizione puntuale e mai fuori luogo dei pensieri di un ragazzino che ha "gli occhi per vedere e le orecchie per ascoltare" il mondo dei grandi, gente sicura che il momento politico di quell'anno "sarebbe stato ancora una volta una grande burla, un'allegra buffonata". Abdelkader Djemaï sa quanto si sbagliavano.
(E.B.)
L'universo femminile che ci viene descritto in Cerimonia - primo romanzo della marocchina Yasmine Chami e primo volume della collana "Donne altrove" delle edizioni Il leone verde - riporta inesorabilmente a uno degli assunti più reiterati dell'immaginario occidentale sul mondo arabo: la dicotomia tradizione vs. modernità. Ma, a sorpresa, ribalta completamente la questione e dimostra, senza lasciare adito a dubbio alcuno, che l'assunto è falso, che in terra marocchina la tradizione non combatte contro la modernità ma con essa convive, spesso armonicamente, così come avviene anche nel resto del mondo. Ed ecco che la fanciulla avvolta in un caftano di seta rosa confetto si rivela essere un architetto di grido, che progetta case da ricchi ma che "non dimenticherebbe di inserire nel lotto dei condomini popolari cortili ombreggiati in cui i bambini potrebbero giocare, in cui i contadini strappati alla loro terra potrebbero ritrovare qualcosa della precedente vita comunitaria". Ed ecco che non è la madre, Lalla Rita, a lagnarsi del "desiderio smodato" del marito, ma è Hajj Mohamed G. a trovare eccessive le pretese sessuali della moglie. E ancora: il baldacchino del matrimonio, i doni di nozze, i minuziosi preparativi per il rito si sposano perfettamente con la vita parigina che Malika conduce, pur nella constatazione che la cultura atavica si vuole - talvolta a torto, talvolta a ragione - portatrice di un mondo più adeguato alla realtà di quello moderno. Le azioni di molte delle donne di cui si narra in Cerimonia si danno il compito di ristabilire parzialmente gli equilibri, di riaffermare "le regole di un gioco secolare in cui la muta lealtà della donna non è che la contropartita della protezione accordata dall'uomo".
(E.B.)
F4 (saracinesca)
Il saggio sulla scrittura a firma femminile nell'Iraq contemporaneo, corredato da un'ampia scelta antologica e curato da Inaam Kachachi, giornalista irachena residente a Parigi, è un ottimo libro. Nel loro insieme formano un ottimo libro anche i racconti scritti tra il 1974 e il 1998 da Buthaina Al Nasiri, sempre irachena ma residente al Cairo. Entrambi i testi, con una semplicità a volte persino disarmante, mettono in scena la quotidianità di ordinarie donne irachene, riuscendo a dare loro corporeità cogliendole, come fanno, nell'attimo in cui resistono - o soccombono, a seconda dei casi - a guerre (Iraq-Iran 1980-1988, del Golfo 1991), embargo (dal 1990), dittatura (dal 1979) e alla conseguente frustrazione di sogni e aspirazioni.
Merita sicuramente un plauso, in questo senso, lo sforzo della casa editrice che ha reso fruibile al pubblico italiano uno spaccato della società irachena così decisamente controcorrente rispetto all'immagine massmediatica, abituata a dipingerla, nella migliore delle ipotesi, come arretrata e tribale. Nella loro versione italiana, però, sia il saggio di Inaam Kachachi che i racconti di Buthaina Al Nasiri, scontano il peccato di un'evidente volontà di uscire sul mercato in tempi stretti e di strizzare l'occhio a contingenti esotismi di maniera (altrimenti non si spiega l'apparizione tutta italiana di una sorta di nera mantiglia a coprire parte del volto ritratto, nella foto di copertina dell'edizione francese di Parole di donne, senza l'inutile orpello). Ben più grave, la scelta di tradurre in italiano a partire da una traduzione (francese per Kachachi, inglese per Nasiri) e non dagli originali arabi, procedimento che annulla pressoché totalmente la loro valenza letteraria, come ben dimostra il raffronto tra le due versioni del racconto Il ritorno del prigioniero - presente in entrambi i volumi e in parte, del tutto casualmente, nel dossier dell'"Indice" sulla letteratura araba contemporanea (2001, n. 11). Il raffronto esemplifica senza bisogno di commenti quanto "l'invisibilità del traduttore" non sia poi così invisibile e quanto, com'è facilmente intuibile, la doppia traduzione possa condurre a errori anche grossolani. Avviene, ad esempio, che i titoli di romanzi scritti in arabo vengano citati con il titolo in italiano seguito da un inopportuno - e soprattutto inesistente - titolo francese e che le traslitterazioni dei termini arabi seguano pedissequamente la fonetica francese o inglese (re Fay&çal, Koufa, Karbalaa, Hameed) che li rende spesso irriconoscibili al lettore italiano. Eppure anche così, nella loro poco rispettosa versione italiana, il saggio di Inaam Kachachi e i racconti di Buthaina Al Nasiri, rimangono due ottimi libri che vale la pena di leggere.
(E.B.)
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