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In una fase in cui la vicenda del Pci subisce una vera e propria damnatio memoriae, Novelli compie un tentativo di recupero della memoria di quello che fu realmente, nell'esperienza di moltissimi italiani, il Partito comunista. L'autore ci conduce quindi all'interno di quel "partito nuovo" che fu la grande innovazione togliattiana: partito di massa, radicato nei ceti popolari e nella società, i cui militanti sono propagandisti e agitatori, ma anche costruttori. E così Novelli ci ricorda le lotte sociali degli anni cinquanta-sessanta, ma anche il fatto che la prima scuola a tempo pieno nasce a Torino, con la sua giunta, sotto la spinta dell'assessore Dolino, ex partigiano. Questa, dunque, oltre alla teoria che lo fondava, è stata la forza del Pci: la capacità di stabilire legami di massa attraverso un'azione che mutasse le cose ogni giorno, senza però ridursi a un riformismo fine a se stesso. Novelli ricorda il ruolo delle sezioni, l'attivismo, il dibattito appassionato e non cristallizzato in correnti, lo spirito di solidarietà verso i compagni e "il mondo intero"; la capacità di proiezione esterna attraverso quei "riti" che erano la diffusione dell'"Unità", i volantinaggi, le feste dell'"Unità", i "caseggiati" ecc. E ancora, la capacità di fare una "politica dei quadri", attraverso la formazione, gli avvicendamenti, la pratica politica: il ruolo anche pedagogico del partito, in un paese in cui l'analfabetismo (non solo politico) era ancora diffuso. Tutto ciò in un contesto non facile, e Novelli ricorda la repressione del dopoguerra, i reparti-confino alla Fiat, le provocazioni dei Sogno e dei Cavallo. Senza la resistenza del Pci, difficilmente ci sarebbe stata l'avanzata che sfocerà nel 1968-69. Novelli ci riporta però anche agli anni ottanta, quando nello stesso Pci si fa strada una subalternità alla "modernità" craxiana, ai personalismi e al leaderismo, patologie poi esplose in tutta la loro gravità. Alexander Höbel
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